Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Agostino Doni (Cosenza, metà del sec. XVI ca. – post 1583) è stato un medico e filosofo naturalista, esule religionis causa.
Biografia
Sono poche le informazioni sull’origine della famiglia e sulla prima parte della sua vita, se non che venne trattenuto nelle carceri inquisitoriali per cinque anni durante la giovane età «religionis causa». La detenzione del Doni dovette coincidere con l’intensificarsi delle persecuzioni ai danni delle comunità valdesi in Calabria, condotte con zelo dagli ufficiali del Sant’Uffizio del Vicereame di Napoli in seguito all’abiura e alle delazioni del frate minore Giovanni da Fiumefreddo, e culminate con la strage di San Sito e di Guardia Piemontese (1561).
Doni studiò filosofia e medicina a Padova o a Ferrara, città dove fece la conoscenza di Francesco Patrizi. Doni ebbe una giovinezza molto rocambolesca, tale da mettere a repentaglio la propria vita in molteplici occasioni, come avrebbe avuto modo di confidare al medico basileese e maestro Jacob Zwinger qualche anno più tardi.
Tra l'ottobre e il novembre del 1579 Doni giunse a Basilea dopo una peregrinazione per alcune città della Germania, poiché temeva il clima di intolleranza che si era venuto a creare nella città svizzera all’indomani dell'espulsione di Francesco Pucci (1578) e della breve incarcerazione del libraio-tipografo Pietro Perna, reo di aver pubblicato gli scritti inediti di Sébastien Châteillon (1515-1563) con l’aiuto di Fausto Sozzini, che li aveva raccolti dopo la sua morte.
A Basilea Doni frequentò la facoltà di medicina nel 1579, dove conseguì il dottorato l’anno successivo, sotto il rettorato del teologo Ulrich Koch, che ben rappresentava la svolta intransigente della città, ritenuta dallo stesso Erasmo tra le più tolleranti del contesto riformato europeo. Dapprima Agostino Doni fu ospitato dal collegio agostiniano, e in seguito fu accolto in casa del mercante milanese Francesco Calderini. Iscritto nei registri come «pauper», Doni poté tuttavia contare sul sostegno economico sia di Pietro Caio, decano del pritaneo dell’Università, che gli procurò dei sussidi, così come quello di Basilio Amerbach, che poteva disporre liberamente della cospicua eredità di Erasmo, giuntagli per via paterna. Tuttavia, l’esercizio della pratica medica non bastò al Doni per affrancarsi dal perdurante stato di inedia, a tal punto da dover lasciare Basilea, perseguitato da accuse infamanti, dalle quali non fu unanimemente difeso come invece si aspettava. Nel settembre 1580, infatti, Doni scrisse allo Zwinger da Ginevra, lamentando la tiepidezza di molti amici basileesi nel prendere le sue difese. In attesa di poter tornare a Basilea Doni si trasferì da Ginevra a Lione, dovendo lasciare la città per i contrasti sorti con Théodore de Bèze in materia di ortodossia. Nel 1581 Agostino Doni fece ritorno a Basilea, grazie anche all’insistenza del maestro Zwinger, e questa volta fu ospitato in casa di Francesco Betti, ricco mercante romano ed erudito nonché protettore degli italiani esuli religionis causa, e come fonte di sostentamento cominciò a lavorare per la tipografia di Pietro Perna. In questo contesto consolidò l’amicizia e la confidenza con gli lo aveva strenuamente sostenuto, come il maestro Zwinger e Basilio Amerbach, ma ne strinse anche di nuove, con Giovanni Niccolò Stupano, biografo del Curione, e con il medico e filosofo sociniano Thomas Lieber (Erastus). Con loro condivise lo studio di opere di critica radicale dell'aristotelismo, che terminarono nella stesura dell’opera per la quale Agostino Doni venne successivamente ricordato, i due libri del De natura hominis, «in quibus discussa tum medicorum, tum philosophorum antea probatissimorum caligine, tandem quid sit homo, naturali ratione ostenditur», pubblicati per i tipi dello stampatore basileese Froben. Il primo dei due libri fu scritto quasi di getto nel 1580, mentre il secondo fu portato a termine lungo l’estate dell’anno successivo, al suo ritorno dal soggiorno ginevrino. La dedica al re di Polonia, Stefano Bathory, lasciava presagire le future intenzioni del Doni. Ai primi di settembre del 1581, infatti, egli lasciò Basilea con l’intento di trasferirsi a Cracovia, dove il cancelliere reale, Jan Zamoyski, si stava adoperando per fare della corte polacca un ricettacolo sicuro per i dotti italiani attratti dalla fede riformata. Ma la partenza precipitosa non dovette essere dettata soltanto per cercare fortuna altrove, bensì per sfuggire ad un imminente arresto, poiché le sue posizioni religiose preoccupavano tanto il corpo pastorale di Basilea quanto quello ginevrino. Il medico cosentino, infatti, riteneva i teologi il primo ostacolo alla libertà della ricerca, così come scriveva nel secondo libro del De natura hominis: i teologi, a suo dire, offenderebbero Dio, che si manifesta all’uomo attraverso i principi primi che sono oggetto della filosofia naturale, avvallando invece concetti teologici contrari alla ragione, come la resurrezione dei corpi, il principio e la fine del mondo, l’immortalità dell'anima.
Il Doni avrebbe raggiunto Cracovia a piedi, passando prima per Francoforte, Spira e Marburgo, ma non senza affrontare numerose traversie che ne misero in pericolo la vita: ad esempio, riuscì a scappare alla cattura disposta dal vescovo di Strasburgo, Johann von Manderscheid-Blankenheim, forse avvertito da Ulrich Koch, «ut gratificaretur Genevensibus et Bezae», come sospettava il Doni. Prima di arrivare a destinazione dovette fermarsi a Breslavia, dove, ormai stanco e logoro, trovò il modo di incontrare l’umanista Andrea Dudith-Sbardellati e omaggiarlo con una copia del suo De natura hominis, il quale apprezzò i risultati che andavano nella direzione di una visione della realtà antiaristotelica.
Le condizioni in cui Agostino Doni giunse a Breslavia, tuttavia, erano oltremodo precarie, poiché aveva viaggiato privo di sostanze e sguarnito lettere patenti. Di lui si prese cura Dudith, che riconoscendo il valore e rammaricandosi per il trattamento ricevuto dalla chiesa riformata di Basilea, diede al Doni il necessario per ripartire. Il 20 ottobre 1581, Agostino Doni si rimise sulla strada per Cracovia, dove poté incontrare il sovrano non prima del giugno 1582. Alla corte di Stefano Bathory egli fece la conoscenza del medico padovano esule religionis causa Niccolò Buccella, che tuttavia ostacolò il suo inserimento a palazzo forse proprio per la discussa fama che lo precedeva. A Cracovia il Doni esercitò la professione medica insieme ad Oreste Cato, figlio del rifugiato trevigiano Costantino da Serravalle, e discepolo del suo vecchio maestro Jacob Zwinger, e strinse relazioni con altri italiani lì rifugiati, in particolar modo – come egli stesso scrive – con gli esuli fiorentini. Il carattere del Doni, incline alla continua disputa, lo portò a scontrarsi con Gian Michele Bruto, un altro medico padovano e sodale del Buccella, il quale frequentava le riunioni di Sozzini che si tenevano in casa del ricco mercante Prospero Provana insieme ad altri eterodossi radicali.
È in questo periodo che si colloca la febbrile attività del nuovo nunzio apostolico in Polonia, Alberto Bolognetti (succeduto, nell’aprile del 1581, al Caligari), che cercava con ogni mezzo di ricostruire la rete dei rapporti tra gli esuli italiani protetti dalla corte, con l’obiettivo di trovare l’anello debole che avrebbe ricondotto molti eterodossi ad abiurare. Ed è proprio Bolognetti che racconta la riconversione del Doni al cattolicesimo e lo svolgimento della professione medica presso il vescovo di Cracovia Piotr Miszkowski. Il Bolognetti, tuttavia, racconta anche che il Doni sarebbe stato fatto assassinare da Fausto Sozzini mentre si stava preparando per lasciare Cracovia. È il 23 aprile 1583, e dopo quella data non si hanno altre notizie su di lui. Le informazioni del Bolognetti, ritenute ad oggi poco attendibili, non permettono tuttavia di ricostruire gli ultimi anni di vita del Doni, né di confermare la sua riconversione o l’avversità che la comunità degli antitrinitari italiani a Cracovia nutriva per lui.
Agostino Doni interprete del naturalismo telesiano
Fortemente influenzato dal pensiero del filosofo naturalista Bernardino Telesio così come esposto nel De rerum natura iuxta propria principia (1° ed. completa, 1570), Agostino Doni riteneva che ogni risultato delle speculazioni che riguardassero la natura e l’uomo dovesse essere frutto dell’osservazione dei dati naturali percepiti attraverso il senso (sensum). Egli rifiutava pertanto ogni considerazione che fa derivare l’essenza che costituisce l’uomo e ogni oggetto di natura da una deduzione dell’intelletto.
È su questa linea che costruisce la sua critica alla fisica classica che pretendeva di individuare un principio unificatore degli elementi che costituiscono la natura umana al di fuori del campo dell’esperienza. Nelle pagine del primo libro del De natura hominis finiscono pertanto sotto accusa non solo Platone, ma anche Aristotele, Ippocrate e Galeno, che da una mescolanza di elementi insensibili fanno derivare la vita e il senso, introducendo una forza esterna quale elemento unificatore degli elementi di natura.
Agostino Doni, invece, considerava la natura umana come un insieme di sostanze diverse che, al prevalere di una sulle altre e agendo su di esse, vengono indotte a cooperare al fine della vita. La sostanza predominante è quella che viene chiamata impropriamente “spirito”: non si tratta di una realtà incorporea, bensì materiale, la quale conserva la facoltà di sentire ma con intensità maggiore rispetto alle altre sostanze per la maggiore presenza di “calore” e “moto”, le due forze che, al variare della loro presenza in un corpo, determinano la maggiore o minore capacità di sentire.
Il senso così non è solo l’organum (strumento, mezzo) della percezione ma anche della conoscenza: il senso percepisce le alterazioni di calore e moto che lo spirito (ovvero, la sostanza predominante) subisce al contatto con la materia. Non solo la percezione delle cose, ma anche la loro conservazione (ovvero la memoria), la loro modificazione (ovvero l’immaginazione) e l’uso secondo i piani logico e morale dipendono dall’immediatezza del sentire e all’intensità con cui lo spirito agisce sulle cose. Agostino Doni esclude pertanto l’anima quale strumento di percezione della realtà, relegandola insieme al suo presupposto di immortalità al solo orizzonte della fede, non all’ordine naturale delle cose. L’esistenza o l’immortalità dell’anima, che non può essere lo spirito in quanto sostanza corporea, non possono essere dimostrate attraverso la ragione naturale, mentre può essere oggetto della ragione di fede, che tuttavia non può né interferire né utilizzare i processi che regolano la speculazione della natura in quanto tale.
Se in Italia l’opera di Agostino Doni venne letta da Ulisse Aldrovandi e Demetrio Canevari, bibliofilo e medico personale di Urbano VIII, venne molto più stimata dal telesiano Francesco Bacone, e molto più tardi dal medico e matematico Tommaso Cornelio, promotore della rivoluzione scientifica nel Regno di Napoli nel XVII secolo.
Opere
- Augustini Donii consentini medici et philosophi, De natura hominis libri duo, in quibus discussa tum medicorum tum philosophorum antea probatissimorum caligine, tandem quid sit homo naturali ratione ostenditur. Ad Stephanum Serenissimum Regem Poloniae, Basileae, apud Frobenium, 1581.
Fonti
- Basilea, Universitätsbibliothek, Ms. Frey-Gryn II.4 (lettere 70-71); Ms. Frey-Gryn II.27 (lettere 61-66); Ms. Frey-Gryn II.37 (lettere 45, 48); Ms. Frey-Gryn C.VIª.35 (lettere 92, 93, 96, 97); Ms. Frey-Gryn C.VIª. 35/II (lettera 83); Ms. Frey-Gryn G.II.16 (lettera 261) [link]
Bibliografia
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Article written by Vincenzo Vozza | Ereticopedia.org © 2022
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]