Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Pietro Bembo (Venezia, 20 maggio 1470 – Roma, 18 gennaio 1547) fu un letterato, filologo, umanista, poeta ed ecclesiastico.
Infanzia e prima educazione
Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio 1470 da una antica famiglia patrizia. Il padre Bernardo, umanista e diplomatico, era un uomo molto noto nella città lagunare dove ricoprì anche la carica di senatore della repubblica, oltre a svariate cariche diplomatiche. Il suo nome fu anche legato ad una discreta attività di scrittore e uomo di cultura. La madre era una patrizia veneta, Elena Marcello. Si sa poco dei primi anni di studio di Pietro e della sua educazione, di certo la casa paterna con la sua preziosa biblioteca stimolò non poco la precoce vocazione letteraria del giovane. Ebbe come precettore l'umanista G. Aurelio Augurello, che divenne anche suo amico e consigliere. Non risultano rapporti diretti tra Pietro e l'ambiente umanistico veneto prima del 1490, ma non si può dubitare che l'esempio di maestri quali Ermolao Barbaro e Girolamo Donato non abbiano influito sulla sua passione per gli studi umanistici. Giovanissimo seguì il padre a Firenze, dove Bernardo tornò per la seconda volta come ambasciatore veneziano dal luglio 1478 al maggio1480, qui Pietro ebbe i primi contatti con la famiglia Medici e con le grandi figure letterarie di quel momento aureo della cultura fiorentina come Lorenzo il Magnifico, Marsilio Ficino e Angelo Poliziano. Non è certa la sua presenza a Ravenna nel 1482-83 durante la podesteria del padre, mentre fu sicuramente a Roma, durante l'ambasceria durata dal novembre del 1487 all'ottobre dell'anno 1488. Così Pietro, ormai diciottenne, poté visitare la città eterna e classica, umanistica e cristiana che tanto peso era destinata ad avere nella sua vita. Nel 1489 accompagnò il padre podestà a Bergamo.
I primi passi da umanista
Tornato a Venezia nel 1490, il Bembo ormai ventenne fu ufficialmente iniziato alla vita politica, ma molto prima di quella data si era iniziato anche alla poesia scrivendo sonetti ed epigrammi, con una passione e dedizione agli studi maggiore alla normale educazione di un patrizio veneziano. Nell'estate del 1491 furono ospiti della famiglia Bembo a Venezia, Angelo Poliziano e Giovanni Pico della Mirandola, in viaggio nell'Italia settentrionale alla ricerca di manoscritti antichi. Nella grande e ben fornita biblioteca del padre, Pietro mostrò agli ospiti un codice risalente alla fine del IV inizi del V secolo contenente le commedie di Terenzio. Poliziano notò subito importanti varianti rispetto alla lezione fino ad allora nota delle opere terenziane e annotò, con l'aiuto del giovane Pietro e del suo amico Girolamo Savorgnan, le stesse ai margini di una copia stampata nel 1475. A questo amico, comandante militare che sconfisse più volte le truppe tedesche che invadevano il Cadore, allora terra di confine con la Repubblica di Venezia, Bembo dedicò la sua prima opera Sogno. È un capitolo in terza, scritta tra il 1492/1494. che tratta di una visione allegorica in cui una donna (la filosofia) vestita di panni poveri esorta i due amici a seguire gli studi senza sprecare la vita in vanità. Ma la scelta di dedicarsi alle lettere non fu facile, anche perché fortemente contrastata dal padre che cercò in ogni modo di inserirlo nella vita politica veneziana e tentò più volte di fargli ottenere missioni diplomatiche senza mai riuscirci. Così Pietro si vide costretto a lasciare Venezia. Dopo una modesta produzione poetica di circa venti rime e dopo il Sogno, comprese che per diventare un vero umanista doveva imparare il greco. Decise così, con il consenso del padre, di recarsi a Messina con un amico patrizio veneziano, Angelo Gabriele, per studiare alla scuola del famoso maestro Costantino Lascaris. Nel viaggio fecero tappa a Napoli dove conobbero Giovanni Pontano e Jacopo Sannazaro. Il soggiorno messinese durò due anni. Tornò a Venezia nell'estate del 1494 e subito dopo fu raggiunto da Cola Bruno, un messinese pure allievo di Lascaris, che cominciò a rivedere i suoi appunti e per quasi cinquanta anni gli fece da fedele segretario. Pietro scrisse in questo periodo il De Aetna, dove i ricordi del biennio siciliano appena trascorso si intrecciano con spiegazioni scientifiche sull'attività vulcanica attraverso un dialogo immaginario con il padre. Nel frattempo l'invasione francese minacciava l'Italia, anche se Venezia rimaneva ancora neutrale. Bembo cercò di tenersi lontano da un vero impegno politico che appariva rischioso in quel giro di anni e decise di continuare i suoi studi filosofici e giuridici a Padova. Frequentò la scuola di Niccolò Leonico, al quale si legò con una stretta amicizia. Per la sua morte scriverà il sonetto Leonico, ch 'n terra al ve sì spesso nonché l'epitaffio sul sepolcro dell'amico nella chiesa di S. Francesco a Padova. Nel 1497 raggiunse il padre, vicedomino cioè rappresentante di Venezia, a Ferrara: qui poté continuare gli studi filosofici e frequentare una delle corti più raffinate d'Europa. A Ferrara Pietro trovò una società diversa da quella veneziana, quella estense era una corte principesca e cavalleresca con un diverso rapporto tra scuola umanistica e letteratura volgare allora di moda. Conobbe la lirica amorosa di Antonio Tebaldeo, l'Ariosto con cui condivise subito la passione per Petrarca, la letteratura cavalleresca del conte Matteo Maria Boiardo, la raffinata poesia latina di Ercole Strozzi, uomo di corte ma anche tipico rappresentante della scuola umanistica più restia all'uso letterario del volgare. Lontano da Venezia e dalla pratica cultura mercantile che imponeva l'umanesimo civile, Bembo meditò un'opera volgare, in prosa e rima, di tema amoroso, tema tanto caro alla tradizione volgare quanto inviso al mondo umanistico. Cominciò in quel periodo la stesura degli Asolani, un immaginario dialogo tra vari personaggi sulla natura dell'amore. Nei cinque anni del soggiorno ferrarese Bembo fece diversi ritorni a Venezia: nel luglio del 1499 per candidarsi alla carica di pagator ma senza successo; nel dicembre del 1500 si candidò alla carica di ambasciatore in Ungheria ma fu respinto; nel marzo del 1501 fu bocciato per la carica di ambasciatore in Portogallo. Tranne questa breve attività politica, tra il 1499 e il 1500, Pietro si dedicò soprattutto a portare avanti gli Asolani, stimolato anche dalla relazione con Maria Savorgnan. Con lei scambiò dal maggio del 1500 a settembre del 1501 una serie di sonetti e lettere dove si trova molto sul tema dell'amore affrontato poi nell'opera e, come nella finzione letteraria, esperienze amorose e amicizie sincere cominciarono a intrecciarsi nella sua vita sempre più spesso. Nell'ambiente estense strinse amicizia anche con Iacopo Sadoleto, poeta e teorico della poesia latina; con Alberto Pio, il protettore di Aldo Manuzio e continuò a seguire l'indirizzo filosofico e umanistico di impronta aristotelica della scuola di Leoniceno. Anche a Venezia Bembo, con il gruppo di amici costituito allora da Niccolò Tiepolo, Vincenzo Querini e Tommaso Giustinian – oltre che da Angelo e Trifone Gabriele – si dibatteva tra preoccupazioni filosofiche e religiose da una parte e passione per la poesia volgare dall'altra. Ma sia l'aristotelismo padovano che il neoplatonismo fiorentino non offrivano una giustificazione etica e intellettuale al suo ozio letterario né un più rigido controllo delle parole scritte e quindi destinate a rimanere nel tempo.
Verso la maturità intellettuale
Pietro, ormai trentenne, si convinse che la questione della lingua e della letteratura volgare, ancora dibattuta e insoluta, andava risolta per consentire alla sua opera di essere tenuta nel giusto conto presso la società e il pubblico cui si rivolgeva. Cominciò così un intenso lavoro di trascrizione e collazione dei testi di Dante e Petrarca che gli permise di acquisire una eccezionale padronanza della lingua italiana trecentesca. Nel 1501 pubblicò con Aldo Manuzio Cose volgari del Petrarca e nel 1502 le Terzine di Dante. L'editore umanista, che fino ad allora aveva pubblicato solo opere in latino e greco, di colpo diede una svolta alla sua attività editoriale stampando in carattere corsivo e formato tascabile testi di Virgilio e Orazio e subito dopo, nella stessa serie, il testo del nuovo Petrarca e quello di Dante con il titolo Le terze rime di Dante. La collaborazione di Bembo con Manuzio si basava sull'idea di costruire un sapere enciclopedico, filologicamente moderno e regolato da norme precise, imperniato su una lingua – latina o volgare – chiara ed elevata che permettesse la circolazione delle idee in un'epoca di divisioni politiche e religiose. Si voleva superare l'umanesimo civile al servizio della sola patria per dar corpo al sogno di una repubblica delle lettere europea. Nell'aprile del 1502 Bernardo Bembo fu nominato podestà di Verona. Pietrò non seguì il padre e nel maggio del 1502 con due amici, Vincenzo Querini e il medico-astrologo Valerio Superchio, andò a Roma. Fu poi ancora a Ferrara ospite di Ercole Strozzi. Qui ebbe inizio la sua relazione con Lucrezia Borgia, da poco giunta alla corte estense come sposa di Alfonso d'Este. Certo fu una relazione con un forte sapore di letterarietà, propria del Bembo personaggio-poeta che faceva di Petrarca e della materia amorosa il tratto distintivo della propria attività di letterato. Ma il 30 dicembre del 1503 la morte del fratello Carlo lo costringeva a lasciare Ferrara e rientrare a Venezia. Tornato in patria partecipò nel marzo del 1504 alla candidatura di ambasciatore in Francia, poi a quella di ambasciatore in Germania, ma ogni volta senza successo. Sempre nel marzo del 1504 seguì il padre inviato come ambasciatore straordinario a Roma e si fece conoscere nell'ambiente della Curia romana. Al ritorno si fermò alla corte di Urbino, passò per Ferrara e raggiunse Mantova dove fu presentato alla corte di Isabella Gonzaga. Da giugno a settembre del 1503 si candidò più volte a candidature per varie ambascerie (Francia, Spagna, Napoli) e sempre venne respinto. Bembo maturò allora la decisione di sistemarsi definitivamente lontano da Venezia. Da una lettera scritta nell'ottobre 1503 al cardinale Galeotto Franciotti Della Rovere si evince che faceva affidamento in quel giovane prelato, amante delle lettere e nipote prediletto del papa, per trovare una degna sistemazione alla corte romana. Era consapevole che in tal caso avrebbe dovuto rinunciare ai suoi diritti politici come patrizio veneziano nonché allo status di laico, ma comunque voleva tentare la fortuna a Roma. Nell'estate del 1506, però, fece una tappa a Urbino come ospite dei duchi urbinati e qui rimase per sei anni, preparandosi da qui a una carriera ecclesiastica. Alla corte urbinate si stavano raccogliendo i maggiori poeti in volgare e un buon numero di uomini di lettere esuli e alla ricerca di un futuro migliore. Bembo riprese gli studi umanistici e si dedicò all'approfondimento della lirica amorosa in volgare, alternando lo studio e la scrittura a periodi di ritiro presso l'eremo di Fonte Avellana, presso l'abbazia camaldolese di S. Croce. Tornò altresì a lavorare al dialogo filologico su Virgilio e Terenzio, l'opera iniziata nel periodo ferrarese e per cui aveva ottenuto un privilegio di stampa già nel 1504 a Venezia, ma non ancora pubblicata. Nel 1507 scrisse due componimenti che ebbero immediato successo: le Stanze, di genere comico, e una canzone in morte del fratello Carlo. Nel gennaio del 1508 otteneva, dal papa Giulio II la commenda di S. Giovanni dell'Ordine gerosolimitano a Bologna, iniziando così la vita clericale. Verso il 1509/1510 compose in latino De Urbini ducibus, un componimento di celebrazione delle doti umane ed intellettuali del duca da poco morto e un canzoniere di sessanta rime dedicate alla sua vedova, tranne l'ultimo sonetto dedicato all'amico Federico Fregoso, arcivescovo di Salerno. Bembo, dopo la morte del cardinale Franciotti, contava infatti sul patrocinio del Fregoso. Intanto si dedicava alla composizione delle Prose della volgar lingua, che occupò gli ultimi anni della sua permanenza urbinate. Nel 1511 moriva il cardinale Alidosi ucciso dal nuovo duca urbinate Francesco Maria della Rovere e Pietro decise che Urbino non rappresentasse più un porto utile per la sua carriera presso la Curia. I primi mesi del 1512 si trasferiva in casa Ferragoso a Roma. Qui molti artisti stavano facendo rivivere le testimonianze dell'antica civiltà latina, nella pittura come nella scultura e nella letteratura trionfava la nuova latinità. E Pietro si schierò a favore di un umanesimo latino. Nel marzo del 1513 il nuovo papa Leone X nominò Bembo e il suo amico umanista Jacopo Sadoleto segretari ai Brevi latini e ciò significò, dal punto di vista letterario, la vittoria dell'umanesimo ciceroniano nella prosa e virgiliano nella poesia. Nel dicembre del 1514 fu inviato come ambasciatore del papa a Venezia, per convincere la repubblica a far parte di una lega antifrancese, ma la sua missione non ebbe successo e segnò il declino politico del padre. La sconfitta gli costò il cardinalato anche se in quel giro di anni ebbe diversi benefici ecclesiastici che gli assicuravano comunque l'indipendenza economica. Nel 1517 entrò in possesso della commenda di Bologna, che aveva ricevuto in assegnazione dal 1508 e ottenne pure l'abbazia benedettina di S. Pietro di Villanova a Vicenza nonché il titolo di priore d'Ungheria. Sempre a caccia di benefici ecclesiastici, cercò però di rinviare il più possibile i voti religiosi per non impegnarsi definitivamente in una vita che non sentiva sua. Nell'aprile del 1518, reduce da una grave malattia che lo aveva colpito l'anno precedente, fu autorizzato dal papa a tornare per motivi familiari a Venezia. La notizia della morte del padre lo raggiunse a Bologna ma Pietro arrivò ad esequie avvenute. Bernardo lasciava un'eredità dissestata e il figlio riuscì a salvare solo la villa nei pressi di Padova. Tra Venezia e Padova rimase fino ai primi mesi del 1520. Nell'aprile di quell'anno tornò a Roma con la speranza di poter ricevere il cardinalato, ma rimase di nuovo deluso. Intanto la sua salute fisica peggiorava e nel marzo del 1522 si trasferì a Padova per trascorrere un periodo di riposo. A Roma, morto Leone X, salì al soglio pontificio Adriano VI e per Bembo non fu possibile ottenere altre dilazioni dei voti religiosi. Per conservare i suoi benefici ecclesiastici dovette pronunciare i voti e vestire l'abito dell'ordine gerosolimitano.
La consacrazione umanistica e letteraria
Nonostante il voto di castità Pietro continuò a convivere con la Morosina (Faustina Morosina della Torre) e si stabilì con lei a Padova e dal lei ebbe tre figli: nel 1523 Lucillo, nel 1525 Torquato e nel 1528 Elena. Nel 1523 fu eletto papa Clemente VII, il cardinale Giulio de' Medici, e Pietro dedicò a lui le Prose della volgar lingua, l'opera che stava allora terminando dopo un'interruzione di dieci anni. Così nell'ottobre di quell'anno tornò a Roma per offrire il lavoro nelle mani stesse del papa. Per ingraziarsi anche Giovan Matteo Giberti, datario pontificio (il responsabile della dispensa dei benefici ecclesiastici) e vescovo di Verona, scrisse e gli dedicò un poemetto mitologico in latino, Benacus. Tornato a Padova Bembo decise di stampare, nell'aprile del 1525, anche le Prose per offrire al pubblico un manuale di grammatica della miglior lingua possibile attraverso una serie di esemplificazioni. In effetti nel 1516 qualcuno lo aveva preceduto: un letterato friulano, G. F. Fortunio, aveva pubblicato Regole grammaticali della volgar lingua. Ma nel 1517 il poverino morì e Pietro, in modo spregiudicato e scorretto, si presentò ai lettori – nell'edizione stampata a Venezia a settembre del 1525 – come se la sua opera risalisse a dieci anni prima: al nome del dedicatario fece infatti seguire “che poi è stato creato sommo pontefice et detto Papa Clemente settimo”. Le Prose affermarono la supremazia in campo letterario del Bembo, che a sessantanni si presentava alla nuova generazione di letterati in volgare come il grande maestro. In quegli anni Bembo si dedicò a gestire e consolidare quanto conquistato nel mondo letterario, preparò un piano editoriale preciso e affidò alla stamperia Nicolini la stampa di tutte le le opere, volgari e latine, cui aveva dato l'ultima mano nel 1529. Nel marzo 1530 uscirono così a Venezia le seconda edizione degli Asolani, la prima delle Rime, e i già editi De Aetna e De Imitatione e i due inediti dialoghi De Virgilii Culice et Terentiifabulis e De Guido Ubaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzaga Urbini ducibus. Nel 1530, sopravvissuto alla terzana a un tentativo di avvelenamento da parte del nipote Carlo, fu eletto bibliotecario e storiografo della Repubblica di Venezia e finalmente anche la patria riconobbe il suo prestigio. Pietro, per scrivere una storia contemporanea di Venezia, pensò di usare gli appunti del nobile, ma vecchio e impoverito, Marin Sanudo, che per anni aveva raccolto notizie, informazioni, lettere e relazioni sulla storia della città riempiendo decine di volumi. Convinse il Consiglio dei Dieci a richiedere al Sanudo i Diarii e così in elegante prosa latina si diede alla stesura dell'opera. Bembo era così giunto al colmo del suo successo letterario. Certo non mancarono polemiche come quella con il giovane Antonio Brocardo che osò ironizzare sulle regole del despota Pietro Bembo, ma il promettente letterato morì l'anno dopo le polemiche e Pietro Aretino si vantò di averlo portato a morte per aver oltraggiato il «divinissimo Bembo». Non si sa se l'Aretino avesse agito di sua iniziativa o su richiesta di Pietro, ma il futuro cardinale cercò sempre di evitare con ogni mezzo colpi alla sua reputazione che potessero incidere sulla carriera letteraria ed ecclesiastica che faticosamente costruiva giorno per giorno. Nell'agosto del 1532 morì il figlio Lucilio e nel 1535 perse anche la sua compagna, la Morosina. Intanto nel 1534 a Clemente VII successe Paolo III Farnese e Bembo non perse l'occasione di dedicare al nuovo papa la prima edizione dei suoi Brevi scritti per Leone X, che documentavano il suo servizio alla Curia romana ed erano un modello dello stile ciceroniano che il Farnese, più anziano di Pietro di due anni e quindi di formazione quattrocentesca come la sua, non poteva non apprezzare. Nel 1536, con l'aiuto dell'amico Carlo Gualteruzzi molto conosciuto nell'ambiente della Curia, Bembo riuscì ad ingraziarsi il giovane cardinale Alessandro Farnese, nipote del papa, per avere il suo appoggio al cardinalato. Contemporaneamente entrarono a far parte del collegio cardinalizio di Paolo III Jacopo Sadoleto, Reginald Pole, Contarini, uomini di grande cultura e che avevano avuto stretti rapporti con Pietro. Tutti concordavano sul fatto che Bembo era il più grande rappresentante anche a livello europeo della cultura umanistica e che il suo nome poteva servire alla riforma della Chiesa, nonostante la sua opera letteraria avesse carattere sostanzialmente profano e laico.
Il cardinalato e gli ultimi anni
Nel dicembre del 1538 Pietro fu eletto cardinale in pectore, diventando effettivamente tale nel marzo del 1539, ma senza mai rinunciare alla sua attività di letterato e di uomo di corte. Infatti dal 1537 al 1539 intrattenne una relazione con una nobildonna, Elisabetta Massolo, di cui celebrò la bellezza in alcuni sonetti. Nell'ottobre del 1539 si trasferì definitivamente a Roma e lasciò al fedele amico Cola Bruno la cura dei figli e della villa di Padova. La sua carriera ecclesiastica proseguì rapidamente: nel 1539 ebbe il titolo di cardinale di S. Ciriaco in Thermis e poco tempo dopo fu consacrato sacerdote. Erano gli anni che preparavano il Concilio di Trento e Bembo usò le sue innate doti diplomatiche per tenere a freno la parte più estrema dei riformatori. Strinse rapporti più stretti con il cardinale Reginald Pole, Vittoria Colonna, Alvise Priuli, Pietro Carnesecchi, Marcantonio Flaminio, Vittore Soranzo ed altri. Pietro simpatizzò e forse condivise le posizioni degli Spirituali, il movimento che si proponeva di riformare la Chiesa dall'interno e la cui fede si sintetizzava nel concetto per cui l'uomo si salva solo in virtù della grazia divina. In questi anni Bembo non trascurò la poesia e la scrittura, ma se la sua amica Colonna tra il 1539 e il 1540 apriva una nuova stagione poetica nella quale il petrarchismo si spostava su temi cari agli Spirituali, Pietro non ebbe interesse o tempo di sperimentare una nuova poetica e continuava a limare i suoi lavori. Nel 1541, alla morte del caro amico Federico Fregoso, fu creato vescovo di Gubbio come successore, ma continuò a restare a Roma. Qui, l'anno dopo, ebbe il titolo cardinalizio di S. Crisogono. Nel maggio dello stesso anno moriva il fedele Cola Bruno e Bembo doveva allora provvedere ai figli, soprattutto a sistemare Torquato, già avviato alla carriera ecclesiastica. Nel 1543 dovette seguire il papa a Bologna per l'incontro con l'imperatore, ma nell'estate di quell'anno gli fu concesso di tornare a Venezia e Padova per provvedere alle nozze della figlia Elena con un gentiluomo veneziano, Pietro Gradenigo. Nel novembre del 1543 poté trasferirsi nella sua diocesi di Gubbio e qui terminò la storia veneziana che raccontò fino all'elezione di Leone X e di lui come segretario del papa. Nel febbraio 1544 fu trasferito al vescovado di Bergamo, già a marzo dovette rientrare però a Roma su richiesta del papa. Bembo quindi lasciò la sede a Vittore Soranzo, che fece nominare suo coadiutore. Ad ottobre dello stesso anno Pietro assumeva anche il titolo cardinalizio di S. Clemente. Nei due anni successivi riuscì a tradurre in volgare la sua storia di Venezia senza dare segni di declino fisico o intellettuale, ma nel gennaio del 1547 l'ultima malattia che lo aveva colpito si aggravò e dopo aver la sera prima ricevuto la visita di conforto del cardinal Pole, il 18 gennaio morì. Fu sepolto il 19 gennaio nella chiesa di S. Maria sopra Minerva tra le tombe di due papi medicei, Leone X e Clemente VII.
Bibliografia
- Carlo Dionisotti, Bembo, Pietro, in DBI, vol. 8 (1966).
- Vittorio Cian, Un decennio della vita di m. Pietro Bembo, 1521-1531, Loescher, Torino 1885.
- Marco Faini, L'alloro e la porpora / Vita di Pietro Bembo, Storia e Letteratura, Roma 2016.
Article written by Antonello Fabio Caterino | Ereticopedia.org © 2017
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]