Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Pietro Pomponazzi (Petrus Martir de Pomponatiis), detto Peretto Mantovano (Mantova, 16 settembre 1462 – Bologna, 18 maggio 1525), è stato un filosofo, umanista e medico.
Sommario
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1. Uomo esemplare
Pietro Pomponazzi, personalità d’eccezione nel campo della filosofia e dell’insegnamento, nacque a Mantova il 16 settembre 1462. La sua famiglia, facoltosa e benestante, era di estrazione gentilizia e da sempre legata ai Gonzaga. Egli studiò a Padova con illustri insegnanti: filosofia con Nicoletto Vernia, metafisica con Francesco Securo da Nardò, medicina con Pietro Roccabonella, filosofia naturale con Pietro Trapolino. Nel 1487 si laureò come Magister artium.
Nel 1488 fu chiamato a insegnare all’università patavina dove, negli anni successivi, avrebbe ottenuto la cattedra di filosofia in concorrenza con i più noti docenti, ricevendo moltissimi plausi, divenendo molto stimato e famoso. Sono giunte a noi testimonianze del successo riscosso presso gli allievi “per la opinione grande già concepta e stabilita da quelli scolari verso magistro petro per la scientia e costumi sui” (lettera del marchese di Mantova Francesco Gonzaga, suo protettore, a Tommaso Lippomanno 4 ottobre 1489).
A Padova esercitò l’insegnamento per un ventennio, dapprima dal 1488 sino al 1496 - quando, dopo essersi addottorato in medicina, si recò a Carpi presso Alberto III Pio per insegnare logica - e poi dal 1499 sino al 1509 - anno in cui lo Studio patavino venne chiuso a causa della guerra tra la Lega di Cambrai e la Repubblica di Venezia. Tornato a Mantova per qualche tempo, nel 1510 fu impegnato in una breve docenza all’università di Ferrara su insistente invito di Alfonso d’Este che chiese anche alla sorella Isabella, marchesa di Mantova, di intercedere affinché il filosofo accettare l’incarico.
Tra 1511 e 1512, all’età di cinquant’anni, Pomponazzi approdò all’ateneo di Bologna; in questo periodo scrisse le sue tre opere più importanti: De immortalitate animae, De incantationibus, De fato et libero arbitrio, a cui inoltre seguirono De nutrimento et augmentatione, De partibus animalium, De sensu; egli insegnò filosofia a Bologna sino al 1525 quando la morte lo colse dopo una prostrazione fisica e psicologica causata da problemi di calcolosi aggravatisi l’anno prima; secondo le testimonianze egli si lasciò stoicamente morire; il suo allievo Antonio Brocardo, in una lettera al padre datata 20 maggio 1525, scriveva che il filosofo rifiutava di mangiare e di parlare e che ruppe il silenzio alla fine con “Abeo laetus abeo”, e a chi volle porgergli del cibo gridò “Sinite, volo abire.”
D’altra parte crediamo che la sua vita, non priva di delusioni e profondi dispiaceri che senz’altro incisero sul suo stato fisico1, ormai non gli consentisse più un sereno esercizio della filosofia: egli in un messaggio di commiato scriveva tra l’altro “Non fatene una questione di straordinaria importanza, è solo un piccolo dettaglio ideologico”. Fu Ercole Gonzaga, suo allievo a Bologna, a far trasportare il corpo a Mantova per la sepoltura nella cappella privata in san Francesco con una cerimonia funebre di cui si occupò il banchiere Pietro Bonfigli.
I suoi contemporanei ci hanno lasciato notizie della sua semplicità, onestà e generosità. Molto ammirato per le doti intellettive e la sottile dialettica, amato per la sua bontà e l’altruismo didattico, come ricorda uno dei suoi studenti più noti, Paolo Giovio, che lo descrive come “grave e posato che gli studenti dai loro posti potevano annotarsi le spiegazioni”, definendolo “uomo moderno”, Pomponazzi lasciò un segno indelebile nei suoi discepoli che senz’altro videro in lui un uomo esemplare che aveva scelto la via laica della virtù come premio a se stessa, votandosi al dono di sé, mettendo in pratica la stessa etica di cui si faceva promotore attraverso la filosofia.
Vogliamo menzionare che il celebre astrologo Luca Gaurico, anch’egli suo allievo, fece il suo oroscopo e lo commentò nel celebre Tractatus Astrologicus del 1552; qui il tema natale del Peretto apre la quarta parte dedicata a uomini illustri Filosofi, Poeti, Oratori, Musicisti, Pittori, Scultori, precedendo dunque quelli di Giovanni Pico della Mirandola e Alessandro Achillini, entrambi di un anno più giovani di lui; nel commento Gaurico parla dei peculiari caratteri fisici del Maestro Peretus e soprattutto delle sue straordinarie doti umane e intellettuali, affermando che era filosofo “grande ed egregio”2.
2. Tra passato e futuro
Pomponazzi fu insegnante presso la corte di Carpi ed influente intellettuale presso la corte di Mantova, dove governava Isabella d’Este che gli raccomandò il figlio Ercole, futuro cardinale, affinché lo prendesse sotto la sua ala a Bologna: dunque il filosofo, oltre ad essere molto stimato nel vivace e propositivo ambiente accademico, era assai apprezzato presso quelle signorie padane, eredi di un umanesimo raffinato, ambienti sognanti intrisi di neoplatonismo e antiche dottrine che ormai avevano assunto carattere autocelebrativo; un mondo quello cortigiano, in cui anche il filosofo crebbe, senz’altro più immaginifico rispetto ai fermenti universitari padovano e bolognese, dove si studiava e criticava Aristotele e dove ci si votava più alle scienze.
L’ambiente padovano in cui Pomponazzi si formò il cui aristotelismo, come ha ricordato Antonino Poppi, aveva condotto alcuni docenti a badare soprattutto ai principi della fisica, vietandosi di scavalcarli in nome di altre esigenze di ordine religioso, favorì i suoi studi di astronomia come continuatore della tradizione coltivata in particolare dal fisico averroista, filosofo e astrologo Pietro d’Abano3.
In Pomponazzi il determinismo astrale viene ad imporsi, interagendo con una nuova teoria dell’uomo, preparando il terreno alle future generazioni di intellettuali orientati verso i più ampi orizzonti di una scienza della natura; come ha sottolineato Cassirer “l’opera strana ed astrusa di Pomponazzi, da un punto di vista puramente metodologico, ha aiutato a preparare il terreno al nuovo modo di concepire l’accadere naturale, proprio delle scienze esatte” (E. Cassirer, 1927).
Nel filosofo si fa strada la determinazione a distinguere tra le conquiste della ragione e le conquiste della fede, a liberare l’uomo intellettuale dalle forzature e dai dogmi, per riuscire a scorgere nel dialogo tra cielo e terra l’ordine del divenire naturale: dunque egli si pone agli esordi dell’era moderna, contrassegnata dalla nascita di una scienza esatta della natura su cui poggia la conoscenza.
Di certo interesse sono i testi che fanno riferimento all’insegnamento padovano, ma risale al periodo bolognese la stesura delle opere fondamentali che contribuirono a cambiare la storia del pensiero; è così che “ nel giro di pochi anni, tra il 1516 e il 1520, le tre opere principali di Pomponazzi consegnavano alla cultura italiana del ‘500, una visione del mondo in cui la soluzione tra i problemi fondamentali della filosofia, da quello della natura dell’anima e della conoscenza, a quello della libertà e del fato e in genere della natura delle religioni, era destinata a superare nel tempo per la sua efficacia la caduta di quella concezione tradizionale del cosmo in cui anch’essa aveva trovato il suo implicito presupposto.” (A. Ingegno, 1977).
Potremmo descrivere Pomponazzi nei termini in cui Bigongiari aveva definito Nietzsche4, ossia come un Giano bifronte che, vivendo tra passato e futuro, si fa carico di entrambi, affrontando intimamente la crisi del suo tempo per affacciarsi alla modernità, e non senza travagli intimi. D’altra parte, come è stato rilevato, “a differenza della tranquillità acritica dell’aristotelismo di molti suoi contemporanei, il Pomponazzi percepiva oscuramente nell’insoddisfazione per il suo sapere trasmessogli e conseguito quella non facilmente irrigidibile problematicità dell’esperienza e quel perenne valore filosofico della crisi” (A. Poppi, 1970).
Fu così che egli coltivò le proprie attitudini intellettuali e dialettiche, insieme alle eredità del passato, volgendosi alla elaborazione di una nuova filosofia dove, come abbiamo accennato, il rapporto tra i corpi celesti e il mondo sublunare diviene punto fermo per poter discorrere degli eventi naturali straordinari, ossia dei miracoli, dei legami tra i moti dei pianeti e i cicli della storia, anche religiosa, e dunque della natura e del destino dell’uomo. Il filosofo intraprese la via verso una nuova metodologia di indagine sull’uomo e sulla natura e verso la fondazione di una nuova etica senza il supporto della religione, in un momento di trasformazioni decisive, ossia contemporaneamente alla rivoluzione copernicana e alla riforma religiosa portata avanti da teologi e innovatori, alcuni dei quali si interessavano a quella branca dell’astrologia denominata “Mondiale” di cui Pomponazzi si è fatto esponente5: d’altra parte, come ha illustrato André Barbault, egli si inserisce in un preciso panorama storico relativo a questa materia di cui si sono occupati importanti ricercatori dall’antichità ai nostri giorni, tra questi ricordiamo i grandi astronomi dell’era moderna, come Tycho Brahe, Képlero, Galilei e Newton. Come avremo modo di chiarire, per Pomponazzi il determinismo astrale assume un ruolo chiave nell’ambito di una nuova cosmologia in cui l’uomo si pone come organo dell’intera umanità che a sua volta appartiene al corpo cosmico dell’universo.
La sua ferma metodologia di indagine, basata sull’osservazione della realtà sensibile (oportet stare sensui) e sul dialogo tra sistema celeste e mondo sublunare, entrava così in vistosa contrapposizione con qualsiasi altro ambito che non soddisfasse le ragioni dell’esperienza, l’unica che per Pomponazzi andava salvata (experimenta salvare). La volontà di indagare il cosmo senza le interferenze della religione6 implicava la definitiva rottura con il pensiero medievale e quegli stessi ambiti culturali irretiti da condizionamenti e pregiudizi con i quali egli aveva avuto familiarità.
Il filosofo rivela un’indole che tende a isolarsi per porsi fuori dai contesti istituzionali religiosi e politici, distaccandosi dai tafferugli umani e dalle guerre, per poter analizzare con lucidità l’uomo e l’ordine del mondo, contribuendo a preparare le future generazioni ad un libero approccio alle cose e ad accogliere l’imminente rivoluzione filosofica con l’elaborazione di una nuova concezione della natura che ritroveremo in altri pensatori quali Girolamo Cardano, che come Pomponazzi si occupò dell’origine astrologica delle religioni, Giordano Bruno, esponente del naturalismo e precursore della moderna cosmologia, e Tommaso Campanella, che pure sviluppò la teoria dell’uomo e della conoscenza sensibile, addentrandosi dunque nell’astronomia e nell’astrologia.
3. Una nuova cosmologia
Addentriamoci in breve nella nuova cosmologia che viene a configurarsi dal De immortalitate animae, dove protagonista è l’uomo, al De fato et libero arbitrio, dove protagonisti sono la libertà e il destino dell’uomo.
A tale scopo vogliamo fare riferimento in sintesi ad alcuni dei punti salienti della dissertazione su Pomponazzi di Éric Weil (1928, pubblicata nel 1932), che illustra, mediante una rigorosa analisi, le linee strutturali degli originali enunciati di Pomponazzi nell’ambito della filosofia del Rinascimento, mettendo particolarmente in luce il nuovo concetto dell’uomo che viene a delinearsi offrendoci una interpretazione unitaria della filosofia del mantovano per il quale “per la prima volta, la natura è stata pensata come unità e l’uomo come essere morale” (Weil).
Il lavoro di analisi e valorizzazione del pensiero di Pietro Pomponazzi inaugurato da Weil è stato portato avanti in seguito da alcuni eminenti filosofi e storici; ricordiamo che in anni recenti l’analisi interpretativa dell’opera del Pomponazzi è stata particolarmente approfondita e ulteriormente ampliata da Vittoria Perrone Compagni, che, oltre ad essersi addentrata a fondo nelle vicende biografiche del filosofo, ha messo in evidenza i caratteri di unitarietà della sua intera opera attraverso originali letture e contestualizzazioni della stessa7.
Nella sua dissertazione, Weil illustra che nel De immortalitate Pomponazzi - criticando la dottrina dell’anima di Averroè, divenuta modello di una parte della scuola aristotelica italiana, per cui l’intelletto è separato dall’uomo, e approdando a conclusioni opposte a quelle della dottrina dell’anima avanzata da San Tommaso, per cui l’attività dell’anima è indipendente dal corpo - afferma che l’immortalità dell’anima è insostenibile nell’ambito dell’artistotelismo stesso, che essa è inconoscibile ed è pensabile solo nel contesto della mortalità; dunque da qui la necessità di volgersi all’uomo per comprendere l’anima dal momento che corpo e anima coesistono nell’uomo come mortalità e immortalità (l’anima, scrive Pomponazzi, è simpliciter mortalis, secundum quid immortalis): l’anima ha bisogno del corpo come condizione della sua attività (indigere tamquam obiecto) ma non come condizione del suo essere (indigere tamquam subiecto). Non si può infatti concepire l’anima se non si possiede il corpo mortale e sensibile, e non è dunque possibile distruggere l’unità tra amina e corpo, al punto che la necessità del corpo come forma per il pensiero stabilisce l’indissolubile unione tra i due. Anima e pensiero non sono più separati dunque ma coesistono nell’uomo e in questo senso il filosofo sposta tutta l’attenzione sull’uomo, che diviene oggetto della sua ricerca. Weil dunque chiarisce che in Pomponazzi “l’uomo singolo partecipe di tutte le altre forme in natura, è membro dell’umanità che è a sua volta un organismo, e come nel corpo le diverse parti hanno funzioni differenti, così nell’umanità i diversi individui devono essere considerati come differenti organi di un corpo unico. Gli individui nei loro diversi ranghi e gradi di sviluppo verso la perfezione hanno infatti ugualmente una funzione importante per l’intero organismo dove ogni individuo possiede il proprio ruolo nell’assoluta diversità”. Il corpo individuale e l’organismo umanità, come tutti gli altri corpi sublunari, sono sottoposti ai corpi celesti, e di questo rapporto Pomponazzi disserta nel De incantationibus, dove protagonista è la natura e dove egli afferma che i cosiddetti miracoli hanno cause naturali e non sovrannaturali, così come le religioni nascono crescono e muoiono seguendo una legge ciclica. “Il filosofo - sottolinea Weil - si dice estraneo a precostituite ipotesi del sovrannaturale e intende partire dall’esperienza (experimenta salvare) per giungere a spiegare i fenomeni naturali straordinari.” Dunque i miracoli non sono contro natura né estranei all’ordine naturale, essi sono solo rari e inusuali: la rarità di certi avvenimenti che hanno una loro periodicità particolare non significa che essi siano irriducibili all’ordine naturale8. A questo scopo, prosegue Weil, Pomponazzi “descrive il mondo come una diversità ordinata di sostanze agenti. Si fa strada dunque una cosmologia che afferma la posizione dell’uomo nell’ambito della natura poiché l’uomo è una sostanza agente come tutte le altre sostanze ma ne è distinto, infatti lui solo non è limitato a una azione o a una qualità specifica: il suo essere specifico è determinato dalla partecipazione a tutti gli esseri, e il suo agire è anche un agire in tutte le forme. L’uomo in quanto genus non è una specie qualunque nel mondo, dal momento che la somma degli individui umani riflette le qualità del mondo intero. Solo l’umanità è l’immagine completa del mondo, l’uomo singolo non possiede che questa o quella qualità, le proprietà di questa o quella cosa. La specie umana come corpo unico è un microcosmo dunque, un mondo in miniatura. Questo pensiero cosmologico relativo al concetto di microcosmo implica il concetto di forza individuale, di virtus individualis.”
Dio agisce sul mondo sublunare attraverso l’intermediazione dei corpi celesti che offrono segni, solo così si può spiegare il miracolo della profezia e dell’oracolo: è necessario infatti conoscere i segni buoni e quelli cattivi per poter predire gli avvenimenti; in questo senso, proprio attraverso la sapienza astrologica, paradossalmente il filosofo rintraccia una forma di libertà intellettuale. Tutto ciò che è terrestre è determinato da Dio e la sua volontà è eseguita dalle intelligenze e dai corpi celesti, e questa regolarità di ordine naturale è cosa tanto sicura che colui che conosce il significato delle costellazioni può prevedere quello che le intelligenze vogliono produrre attraverso queste costellazioni.9. Non ha alcun senso dunque introdurre dei geni tutelari dell’uomo quando l’astrologia può predire il destino: il genio dell’uomo è il suo oroscopo (Genii enim nihil aliud sunt nisi hominum geniturae, quique bonas habent genios, qui malas genituras, malos genios). Quando Weil si sofferma sulla concezione di Dio analizzando poi i contenuti del De fato spiega: “Questo Dio di Pomponazzi non può in alcun modo essere paragonato al Dio cristiano. Questo Dio, che lascia divenire e perire gli dei delle religioni, non ha cura di questo o di quell’individuo, ma si prende cura dell’umanità, e il destino dell’individuo gli è indifferente riguardo al destino del tutto. L’umanità è eterna, l’individuo passa; la sua esistenza non ha senso se non che l’individuo viene concepito come membro di questo organismo; l’uomo individuale non è qui figlio di Dio, ma un essere della natura, un membro del tutto, e sebbene sia il più eminente, è senza importanza in quanto individuo. La relazione tra Dio e l’uomo non è di natura religiosa, è piuttosto e prima di tutto un problema cosmologico.”
Così dal momento che il fato si occupa dell’umanità e non dell’individuo, l’individuo assume un valore come essere morale che cerca il bene nell’ambito della comunità senza la quale egli perde di significato. Questo dovere morale non conta sulla ricompensa come dicevamo, ma sulla virtù come premio a se stessa, in un contesto dove sia il bene che il male sono necessari alla stabilità dell’ordine del mondo. E dal momento che il genere umano è come un corpo formato da diverse membra con diverse funzioni dirette alla comune utilità, tanti sono i fini quante le funzioni dei singoli individui nell’ambito del genere umano10.
4. Il De immortalitate animae e i dissidi con la Chiesa
Ai corsi universitari fanno riferimento le prime opere a stampa del filosofo, ma è il trattato De immortalitate animae pubblicato a Bologna nel novembre 1516 per i tipi di Giustiniano Leonardi di Rubiera, la prima opera che lo rese famoso, provocando una violenta reazione da parte degli ambienti monastici e della Chiesa cattolica e ampi dibattiti nell’ambito della stessa scuola aristotelica dalla quale egli stesso proveniva, scuola oramai travagliata da una crisi profonda.
I problemi posti da quest’opera, dove Pomponazzi afferma che l’immortalità dell’anima è insostenibile nell’ambito dell’aristotelismo, che essa, divenendo puro oggetto di fede e non di ragione, non è provabile e dunque non è argomentabile ed è pensabile solo nel contesto della vita umana ossia della mortalità, entravano in conflitto con la bolla Apostolici Regiminis, approvata dal Concilio Laterano V alla fine del 1513, che aveva definito formalmente l’immortalità dell’anima individuale nei termini della psicologia tomistica.
L’opera di Pomponazzi, pervenuta subito a Venezia per essere stata dedicata a Marco Antonio Flavio Contarini, venne attaccata dagli ambienti frateschi e il doge Lorenzo Loredan acconsentì che venisse bruciata sulla pubblica piazza. Inoltre l’agostiniano Ambrogio Fiandino, vescovo a Mantova, attaccò duramente Pomponazzi e pure lo denunciò: fu il cardinale Pietro Bembo, già allievo del filosofo e in quel momento segretario del papa, a proteggerlo raccomandandolo presso il maestro del Sacro Palazzo; Pomponazzi riuscì ad evitare tragiche conseguenze; così, sebbene ci fu chi esacerbò gli attacchi come l’inquisitore pisano Bartolomeo Spina, tuttavia papa Leone X scelse la via del dibattito più che dell’intransigenza, invitando l’averroista Agostino Nifo, che pure insegnava a Padova, a difendere la dottrina cattolica dell’immortalità dell’anima; Nifo scrisse De immortalitate animae libellus, dove rimprovera a Pomponazzi di non avere affrontato la questione dell’immortalità; Pomponazzi rispose alle accuse e al Nifo scrivendo nel 1518 l’Apologia e nel 1519 il Defensorium adversus Augustinum Niphum.
Nell’Apologia in particolare egli si difende dalle accuse mosse da coloro che definisce “predicatori della propria onniscienza”, sostenendo che niente di ciò che è presentato nel libro è eretico e che ciò che stabilisce la fede non può essere dimostrato dalla ragione naturale e che “l’immortalità dell’anima, che non può essere determinata né dimostrata in alcun modo dalla ragione, è un portato della fede che non deve cercare altrove riprova della sua veridicità, né essere ridotta a mandato della ragione per far si che gli uomini vi prestino il loro assenso”.
Nonostante gli scontri con l’ambiente ecclesiastico, che senza successo lo invitò a ritrattare le sue affermazioni, l’Università di Bologna lo protesse, rinnovandogli il contratto per un tempo ancor più lungo e aumentandogli lo stipendio. I Riformatori bolognesi si mostrarono all’unanimità solidali con il Peretto, che negli scritti parlerà con grato animo del vicelegato Lorenzo Fieschi, dell’inquisitore bolognese, del Senato, dell’Università e della città di Bologna, che definirà madre degli studi e di tutte le libertà.
L’amara esperienza della pubblicazione del De immortalitate e la constatazione della pressante ingerenza delle autorità ecclesiastiche in ambito universitario finalizzata a far tacere tutto ciò che non rispettava le norme prestabilite, lasciò un segno nell’uomo che, per evitare ulteriori scontri e inutile dispendio di preziose energie vitali, si orientò a non pubblicare gli importanti trattati successivi conclusi nel 1520, ossia il De naturalium effectuum admirandorum causis sive de incantationibus e il De fato, libero arbitrio et de praedestinatione.
Poco prima della sua morte uscirono a Venezia i trattati peripatetici già pubblicati in precedenza, risalenti alla docenza bolognese, sotto il titolo: Tractatus acutissimi, utillimi et mere peripatetici; essi andavano dal De intensione del 1514 al De nutritione et augmentatione del 1521.
Il De incantationibus, di cui egli permise la circolazione manoscritta, venne pubblicato postumo nel 1556 a Basilea dal fisico protestante in esilio Guglielmo Gratarolo e ascritto ufficialmente all’Indice dei libri proibiti nel 1596; in quest’opera, dove, come abbiamo spiegato, il filosofo fa derivare i miracoli dalle forze della natura, esprimendosi dunque contro la demonologia cristiana, Cristo non appare diverso dagli altri capi religiosi e il cristianesimo non si diversifica delle altre religioni periture; egli suggerisce che niente deve avere la presunzione dell’eternità in terra, e che tutte le religioni sono sottoposte a inevitabile declino e morte. Il De fato venne pubblicato sempre a Basilea nel 1557; esso pure circolò manoscritto congiuntamente al De incantationibus.
Dal momento che il filosofo aveva favorito la circolazione manoscritta di queste opere, il destino volle che, al momento della loro condanna da parte della Chiesa, esse avessero ormai lasciato un segno profondo negli intellettuali nel corso del secolo. Tra i possessori dell’opera manoscritta gli studiosi hanno individuato importanti personalità di Chiesa, come Ercole Gonzaga, Pietro Bembo, Gasparo Contarini, oltre a letterati, studenti, professori, medici, e probabilmente anche alcuni grandi artisti.
5. Il Grande Anno e i fondatori di religione. Pomponazzi nel solco di Virgilio
Vogliamo approfondire in breve la contestualizzazione dell’opera di Pomponazzi nell’ambito dell’astrologia Mondiale anche alla luce dei nostri recenti studi sulla IV Bucolica virgiliana, componimento che mostrerebbe come al vate etrusco Virgilio (70-19 avanti Cristo) fosse nota la dottrina delle Congiunzioni astrali riferite ai profondi rinnovamenti del mondo e particolarmente alla storia religiosa: Virgilio infatti si fa profeta poiché nelle vesti di conoscitore dei disegni precisi dei corpi celesti, vede, in un futuro a lui prossimo, la nascita di un puer, il fanciullo, per cui “scompare dal mondo la stirpe del ferro e risorge quella dell’oro”, puer legato a una nuova età del mondo e al ritorno dei regni di Saturno; egli annuncia infatti che “ormai si avvicina il tempo perché assurga agli alti onori la cara progenie degli dei”, definita “mugnum Jovis incrementum”, ossia letteralmente “grande accrescimento di Giove”, espressione che, secondo la nostra astroanalisi del testo, potrebbe riferirsi alla Conjunxo Maxima ossia alla Grandissima Congiunzione planetaria di Giove e Saturno, che si sarebbe verificata tra il 7 e il 6 avanti Cristo, per cui nel “grande accrescimento di Giove” potrebbe intendersi quello della sua luminosità (G. Pinotti, 2017): si tratterebbe certo dell’incremento del potere del sovrano di cui Giove era ritenuto simbolo, ma anche del grande accrescimento luminoso (o aumento di grandezza siderea) di Giove come corpo celeste per la sua reale congiunzione con il pianeta Saturno che si sarebbe verificata nuovamente, dopo quasi ottocento anni, in quel particolare punto dell’eclittica detto “vernale”, al grado zero di Ariete, evento astronomico di straordinaria luminosità e portata in cui si voleva vedere il segno di una rivoluzione religiosa di cui il nuovo eccezionale leader, ossia il puer, si sarebbe fatto fondatore come progenitore divino; si trattava di una nuova età di pace, come altre ne erano esistite, dalla quale, come scrive Virgilio, il male non sarebbe scomparso del tutto, per il destino ciclico di decadenza e morte a cui sono sottoposte prima o poi tutte le vicende umane. Il vate, conoscitore della dottrina e della pratica dei sacerdoti etruschi, nella IV Bucolica dichiarerebbe dunque che ogni grande mutamento nella vicenda religiosa mondiale è segnalato da eventi eccezionali sul piano naturale o cosmologico.
Le opinioni di Pomponazzi sul ruolo del sapiente, che può vaticinare conoscendo i moti dei pianeti, e sull’origine e il destino delle religioni, che muoiono insieme alla caduta delle civiltà, non si discostano da quelle somme premesse virgiliane strettamente legate alla concezione della natura di matrice etrusca, figlia del rapporto dell’uomo con il cosmo stellato.
Se, come ha evidenziato Barbault, Pomponazzi si inserisce in un panorama storico relativo all’astrologia mondiale che non può prescindere dalla teoria del Grande Anno tramandata attraverso Aristotele11, dove la natura riflette lo svolgimento di un ordine che ubbidisce a leggi cicliche, possiamo collegare le teorie del filosofo mantovano alla letteratura che gli fu familiare e che fu alla base della sua formazione. Ecco che Pomponazzi approfondisce quei particolari assiomi quando afferma che dal momento che “il mutamento di natura religiosa è quello supremo, ed è difficile passare da ciò che fa parte della consuetudine a ciò che è sommamente nuovo, è necessario che in tali momenti perché possa stabilirsi la nuova religione abbiano luogo eventi mirabili e fuori dalla norma. Occorre dunque che i corpi celesti inviino uomini capaci di operare miracoli…Per questa ragione vediamo che tali fondatori di religione sono preannunciati con certezza molti secoli prima del loro avvento da vaticinii e profezie, vediamo che alla loro nascita si verificano grandi prodigi e durante la loro vita si producono eventi eccezionali”.
Per Pomponazzi dunque gli oracoli, gli auspici, i presagi, la profezia stessa, sono alcuni tra gli strumenti di cui la divinità sempre si è servita per assistere l’uomo nella sua ricerca intellettuale dove l’astrologia spiega il sorgere e il perire delle religioni. Nessuno più di Virgilio aveva saputo esprimere tali principi: la sua stessa condizione di vate sapiente, che scruta nelle pieghe del tempo e conosce i segreti della natura, rapportandosi quotidianamente ai disegni precisi dei corpi celesti, è la stessa che Pomponazzi descrive come ideale condizione delle facoltà umane finalizzate a predire gli avvenimenti che le intelligenze vogliono produrre attraverso le costellazioni.
D’altra parte nel De incantationibus Pomponazzi si richiama sovente a Virgilio, reputandolo uomo di scienza alla stregua di Aristotele, Archimede e Platone; nell’opera vengono citati diversi brani dell’Eneide, come quelli che descrivono l’estasi della Sibilla o altre pratiche straordinarie, a riprova che il filosofo considerava esemplare l’opera di Virgilio. Pomponazzi narra anche di Nigidio Figulo, filosofo grammatico e astrologo vissuto ai tempi di Virgilio, che tradusse in latino il calendario brontoscopico, ossia il calendario etrusco per interpretare i tuoni regolato secondo la Luna.
Non è dunque insolito che alcuni illustri allievi e discepoli di Pomponazzi, come Sperone Speroni, si siano dedicati a loro volta a studi critici dell’opera virgiliana.
Pomponazzi non è stato l’unico filosofo della natura ad apprezzare Virgilio come uomo di scienza; in questa sede ricordiamo almeno che un altro grande rivoluzionario scienziato ha colto l’eredità virgiliana, ci riferiamo a Galileo Galilei che mai ha perso occasione per citare il poeta di Andes, ricordando, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, come i versi di Virgilio possono spiegare “tutti gli affari degli uomini, e i segreti della natura”.
Ricordiamo peraltro che nelle Georgiche Virgilio, sulla scia delle più antiche tradizioni, rivela un’erudizione astrologica e astronomica relativa all'influenza solare e lunare sui fenomeni metereologici, la vegetazione, gli animali, l’uomo, temi di cui si occupano pensatori come Pomponazzi che nel De incantationibus, scrive: “Una prova del fatto che i corpi celesti concorrono alla produzione di tali effetti viene dalla constatazione che molte di quelle capacità che si sono menzionate, ossia la divinazione e così via, si manifestano in certa misura anche nelle bestie e negli enti privi di anima. Aristotele dice che il corvo conosce in anticipo le carneficine e le guerre future; molti pesci e molti uccelli preannunciano il maltempo imminente e offrono segni straordinari del futuro, del presente e del passato, come bene sappiamo dai presagi e dai pronostici augurali; e i libri di storia dei Greci, dei Latini e dei Barbari ne sono pieni”. E tra questi spicca innanzitutto Virgilio che, nelle vesti di attento osservatore del cielo e delle relazioni che intercorrono tra gli astri e la vita sulla terra, e di maestro che raccomanda di tenere sotto osservazione i pianeti per poter prevedere da segni sicuri i fenomeni, sottolinea con il termine ordo, che accorre sovente, l’ordine di matrice celeste che regola il mondo e si riflette nella natura, utilizzando spesso il termine certus (certis signis, certis locis), nel senso di stabilito e sicuro poiché il cielo e gli astri ci suggeriscono sempre il momento esatto per agire e presagisce le tempeste, sia quelle naturali che quelle umane; Virgilio inoltre dichiara apertamente come il suo più grande desiderio sia quello di scoprire i segreti del mondo, le vie del cielo e le stelle, e nel caso gli si chiudano le porte alla conoscenza, allora si volgerà senza gloria (inglorius) alla natura, poiché se felice è colui che comprese le cause dei fenomeni (felix, qui potuit rerum cognoscere causas), fortunato anche colui che conobbe gli agresti Numi (fortunatus et ille deos qui novit agrestis), ossia l’agricula che ricerca il bene vivendo secondo natura: si tratta in questo caso dell’uomo semplice che, lontano dal vivere civile, dalla agitata corruzione e dalla bellicosità, si dedica con amore alle attività della terra, madre che offre i frutti necessari alla sopravvivenza della specie: un’anticipazione dell’uomo che Pomponazzi ricercherà e a fondo teorizzerà, quell’individuo practicus che può raggiungere la beatitudine senza bisogno di diventare filosofo o intellettuale, prerogativa di pochi.
6. Conclusioni. Pomponazzi e il miracolo dell’uomo nel microcosmo: il corpo come mortale eppur prezioso ricettacolo dell’anima
Pomponazzi confidava nelle potenzialità enormi della natura e dell’uomo, che riteneva potesse avere in sé anche un’energia superiore atta a compiere azioni straordinarie. Questa sua fiducia nella potenzialità dell’intelletto e nella conquista della virtù premio a se stessa, senza la promessa di una ipotetica ricompensa post mortem, diede forza al suo carattere e ai suoi stessi allievi che sempre lo stimarono e lo videro come esempio di integrità. Il suo altruismo e la generosità nel voler diffondere i suoi precetti lasciarono un segno indelebile e fu quella la vera via per l’immortalità dell’anima sua.
Se Pomponazzi asserisce che i miracoli sono da ascrivere alle forze della natura, ossia all’uomo con energie eccezionali, allora il vero miracolo sembrerebbe divenire l’uomo stesso, nel quale corpo e anima convivono e offrono l’occasione di beatitudine nel conseguimento della virtù di cui solo l’uomo è responsabile grazie al proprio affinamento. Dunque l’uomo è parte fondamentale e straordinaria di un organismo, partecipando egli a tutte le forme e a tutte le sostanze tramite il corpo materiale che, seppur nei suoi grandi limiti terreni, gli permetterà di conoscersi e attivarsi nell’ambito dell’organismo umanità. L’uomo non ha da ricercare fuori dall’esperienza, in un futuro ipotetico post mortem, la promessa dell’infinito. L’infinito è già qui a richiederci, mentre noi lo serviamo a nostra volta.
Pomponazzi ha riportato dunque l’attenzione sull’uomo in una società che andava cercando risposte al di fuori di esso: il filosofo cercava risposte all’uomo nell’uomo, attraverso le facoltà intellettive, svincolate da preconcetti e vincoli che avrebbero rischiato di falsare la prospettiva di indagine, distogliendo dal sentiero della ragione.
In un cosmo in espansione, in un mondo con nuovi orizzonti geografici, in un momento in cui la Chiesa era dilaniata dall’immoralità e dalle divisioni interne, il filosofo credeva che la soluzione a tutto stesse nella conoscenza dell’uomo come organismo vivente, dove l’anima si radica scegliendo la via della mortalità per renderla più tollerabile alla ricerca del proprio senso. L’uomo avrebbe dovuto accettare il proprio destino una volta entrato a far parte della natura e partecipare di essa con il proprio intelletto, accettare l’occasione della vita, questo dono di mortalità e immortalità avvinghiate senza rimedio, e attenersi al dovere di viverla al meglio delle proprie possibilità individuali all’insegna della vera virtù, quella che non aspetta ricompensa alcuna, a fondazione di un’etica in cui non è indispensabile la libertà assoluta, bensì l’azione finalizzata alla conservazione della comunità.
Ma non è possibile alcuna conoscenza senza libertà di pensiero e dunque senza porsi in contrasto con coloro che vogliono imporre agli altri uomini spietate e ingiuste restrizioni nel nome del potere, ammalando così le facoltà cognitive dell’individuo e dunque dell’intero corpo sociale. Ecco dunque che assume un senso ancor più ampio la convinzione di Pomponazzi pronunciata con quell’ironia canzonatoria e amara che serviva a smorzare i toni delle polemiche, per cui in filosofia chi vuol trovare la verità, dev’essere eretico.
Riferimenti bibliografici
Opere di Pietro Pomponazzi
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- Pietro Pomponazzi, Tutti i trattati peripatetici. Trattato sull’intensità e sull’attuazione delle forme. Trattato sulla reazione. Questione sull’azione reale. L’immortalità dell’anima. Apologia, discorso difensivo. Trattato sulla nutrizione e sull’accrescimento, a cura di Francesco Paolo Raimondi e José Manuel Garcia Valverde, Bompiani, Milano 2013.
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Article written by Gianna Pinotti | Ereticopedia.org © 2017
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]