Lucrezia di Rorai Grande

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Lucrezia di Rorai Grande è stata una donna processata per stregoneria a Pordenone nel 1606.

La vicenda di Lucrezia, della quale purtroppo non si conosce il cognome se non quello del marito (era vedova di Benedetto Rizzardi), emerse a seguito della morte di una certa Giacoma, moglie di Nicolò Fedrigo. Il tutto si svolse a Rorai Grande, dove era parroco Giacomo Biano, il quale non scrisse molto sull’atto di morte, ma riuscì a portare a galla il ruolo di Lucrezia nella vicenda.
La donna, nota strega locale, era stata pregata da Franceschina, suocera di Giacoma, affinché venisse al capezzale della nuora per guarirla dall’infermità che la costringeva a letto. Dopo un primo tentennamento – in passato Lucrezia era già stata rimproverata per pratiche simili – la donna accettò e si presentò nella camera da letto dell’ammalata.
Considerata come un castigo divino, la paralisi della ragazza poteva essere risolta con l’estirpazione del male, piovuto dal cielo come un’inesorabile pena. Mossa da amore quasi materno, Franceschina decise di ricorrere a una “professionista”, con la speranza di porre rimedio alla terribile situazione. Certo non si sentiva di rivolgersi al parroco per una pratica simile, anzi promise alla stessa Lucrezia di serbare il massimo segreto su quanto sarebbe accaduto. Purtroppo la fattura non ebbe il risultato sperato e Giacoma morì la sera del 23 luglio 1605.
In onta alle promesse fatte, Franceschina andò a confessarsi dal parroco, il quale le negò l’assoluzione, rimettendola all’inquisitore. Così Franceschina, e Lucrezia, si trovarono di fronte a Tiberio Asteo e Antonio Manenti, ausiliari e temporaneamente sostituti dell’inquisitore di Aquileia e Concordia Girolamo Asteo. I due frati non ebbero difficoltà nel risolvere la questione, essendo le due molto spaventate e disposte a deporre spontaneamente tutti i fatti. Così i giudici poterono approfondire la questione che maggiormente interessava loro, ossia la formula magica per l’espiazione del male, che fu riportata da Lucrezia. La procedura aveva un profondo significato simbolico, quasi materiale. Bisognava, infatti, imporre le mani sul corpo dell’inferma e pronunciare le seguenti parole: «li ossideli dal ciel cader, i bei pastor li andò a veder senza occhi i vedei e senza gambe diedro i ghe corre, e senza man i pigliano e senza baston i à mazzano e senza cortel i scortega e senza aqua i lavano e senza fuogo i brusano e senza boccha i magnano e senza cul i cagano». Il tutto si concludeva recitando «così come tuto questo è vero e né lascia così prego Dio e santa Maria che questi ossideli ghe vada via in nomine patris et filij et spiritus santi Amen». Quasi una vera e propria cattura fisica con conseguente estrazione del maligno dal corpo di Giacoma.
Alla fine le due donne vennero entrambe assolte e la questione velocemente chiusa, senza strascichi né particolari punizioni.

Bibliografia

  • Mauro Fasan, Streghe a Meduna tra Cinquecento e Seicento, in "Cultura in Friuli", IV, 2018, pp. 489-506.
  • Mauro Fasan, Lucrezia la strega di Rorai Grande, in “Storia Veneta”, 52, 2019, pp. 20-23.

Article written by Mauro Fasan | Ereticopedia.org © 2019

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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