Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Giulia Di Marco è stata una "finta santa" al centro di un clamorosa venerazione, seguita da un altrettanto clamoroso scandalo, che sconvolse la Napoli del primo Seicento.
Nata attorno al 1575 a Sepino in Molise da famiglia di umili condizioni e presto rimasta orfana, fu domestica di un ricco mercante di Campobasso e quindi, alla morte di questi, passò al servizio di sua sorella trasferitasi a Napoli. Ereditati i beni della padrona, si fece terziaria francescana.
Nel giro di pochi anni acquisì grande popolarità e fama di santitò a Napoli. Attorno a lei, al suo direttore spirituale Aniello Arciero e all'avvocato Giuseppe de Vicariis si riunì una congrega di devoti che la veneravano come "madre spirituale" in unione mistica con Dio. Per un certo periodo la sua fama oscurò addirittura quella di Orsola Benincasa.
Il Sant'Uffizio, trattandosi del culto non autorizzato di una "santa viva", intervenne nel 1607 richiamando l'Aniello a Roma e facendo rinchiudere la Di Marco nel convento dei francescani osservanti napoletani di Sant'Antonio da Padova. Alla Di Marco fu anche assegnato un nuovo direttore spirituale, il teatino Ludovico Antinoro, il quale rimase anch'egli affascinato dalla sua figura. Intervenne quindi Deodato Gentile, già commissario generale del Sant'Uffizio e vescovo di Caserta dotato di potere inquisitoriale, che confinò la Di Marco in monastero a Cerreto Sannita. Ma Giuseppe de Vicariis riuscì ad ottenere il trasferimento della madre spirituale a Nocera, la cui diocesi era retta da Stefano de Vicariis (commissario generale del Sant'Uffizio dal 1607 al 1610).
Intanto, anche grazie alla persecuzione subita, la fama di santità della Di Marco non aveva fatto che aumentare, fino al punto che il Sant'Uffizio le concesse di rientrare a Napoli. Tale rientro fu trionfale e il circolo dei devoti della Di Marco non fece che allargarsi, includendo molti membri illustri della nobiltà napoletana. Nel 1614, al culmine della gloria, arrivò la disgrazia. Furono i teatini, protettori della "santa viva" rivale Orsola Benincasa, con l'avallo di Deodato Gentile, nel frattempo diventato nunzio apostolico a Napoli, ad ordire le trame che la fecero cadere.
Diversi pentiti, convinti dai teatini, svelarono la loro verità sulle pratiche consumate dalla setta riunita intorno alla terziaria francescana, che si sarebbe fondata su una sorta di "carità carnale" per la quale l'atto sessuale non rappresentava mai un peccato ed anzi avvicinava l'uomo a Dio. Giuseppe de Vicariis, in carcere, ammise che il gruppo praticava l'adorazione delle parti intime del corpo della Di Marco. Il gruppo venne anche accusato di pratiche stregonesche e diaboliche. Alla fine anche la terziaria francescana, nonostante le protezioni influenti, fu arrestata e trasferita a Roma e rinchiusa a Castel Sant'Angelo. Il processo romano si concluse con l'abiura solenne della Di Marco, di Giuseppe de Vicariis e di Aniello Arciero nella chiesa di S. Maria sopra Minerva (12 luglio 1615). La caduta fu spettacolare come lo era stata l'ascesa. Giulia Di Marco passò il resto della sua vita nelle prigioni di Castel Sant'Angelo, morendo in data imprecisata.
Bibliografia
- Adelisa Malena, Di Marco, Giulia, in DSI, vol. 1, pp. 482-484.
- Adelisa Malena, L'eresia dei perfetti. Inquisizione romana ed esperienze mistiche nel Seicento italiano, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003.
- Giovanni Romeo, Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Laterza, Roma-Bari 2008.
- Jean-Michel Sallmann, Di Marco, Giulia, in DBI, vol. 40 (1991).
- Paola Zito, Giulia e l’inquisitore. Simulazione di santità e misticismo nella Napoli di primo Seicento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000.
Article written by Daniele Santarelli | Ereticopedia.org © 2013
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]