Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Francesco Testa (1704-1774) è stato vescovo di Siracusa, arcivescovo di Monreale, Presidente del Braccio ecclesiastico del Parlamento siciliano, Inquisitore Generale per il Regno di Sicilia.
Vita e opere
Contesto familiare, educazione
Francesco Testa nasce a Nicosia da un’antica famiglia della nobiltà pisana arrivata in Sicilia nel XV secolo, la sua prima educazione è compiuta nella casa paterna. Assieme al fratello minore Alessandro dovrà continuare gli studi a Palermo, ma scegliere un maestro non è facile.
Sono anni politicamente incerti, la Sicilia vede sfilare in rapida successione i rappresentanti di diverse case regnanti europee ed entrare in crisi i rassicuranti codici culturali spagnoli. L’Apostolica Legatia – il privilegio che rende i sovrani siciliani legati a latere del pontefice – fa sì che il variare delle dominazioni abbia un’immediata rispondenza nella vita ecclesiastica, che gesuiti, benedettini e teatini arretrino o guadagnino terreno a seconda della loro collocazione politica; nel frattempo le critiche ai metodi e al programma delle scuole gesuite hanno creato le condizioni per l’esaurirsi di un monopolio plurisecolare, i teatini inaugurano alcune scuole dove la filosofia scolastica è sostituita da un moderato cartesianesimo. Ed è ai Teatini che viene affidata l’educazione dei due fratelli Testa: Alessandro è accolto nel seminario di Messina, il primogenito Francesco è destinato alla carriera del foro e studia legge presso la scuola di Agostino Pantò.
La formazione è completata con alcuni viaggi di studio, il biografo-segretario Secondo Sinesio ne avrebbe elencato le destinazioni da Palermo a Pisa e poi Siena, Padova, Firenze, Bologna, Ferrara, Venezia, Milano: sono le classiche tappe di ogni Tour della penisola, con la differenza che stavolta si va dal Sud verso il continente. Una volta tornato in patria Francesco Testa sceglie di prendere gli ordini ecclesiastici al posto del fratello Alessandro e ricomincia a studiare, assieme a Giovanni Di Giovanni lo ritroviamo fra gli allievi del colto archimandrita di Messina Silvio Valenti Gonzaga.
L'occasione per distinguersi fra i tanti ecclesiastici che popolano la capitale siciliana si presenta quando, dopo il breve intervallo austriaco, tornano gli spagnoli. Il 30 giugno 1735 avviene l’ingresso solenne di Carlo Borbone, il 3 luglio l’incoronazione; e la pubblicazione di una Relazione delle feste in Palermo celebrate per la coronazione di Carlo III rende Francesco Testa "visibile" agli occhi del potente regio ministro don José Joaquín Montealegre duca di Sales: per suo consiglio, nell’agosto del 1735 il giovane sacerdote viene nominato canonico della cattedrale di Palermo. Considerata l’educazione ricevuta pare del tutto ragionevole che, nel conflittuale contesto locale, Francesco Testa si schieri col più avanzato “fronte riformatore”; lo ritroviamo invece nel “fronte baronale”, di cui è fervente interprete il canonico gesuita Antonino Mongitore.
Il fronte gesuitico-baronale
Nel parlamento del 1738, il primo a riunirsi dopo l’insediamento di Carlo di Borbone, diventano visibili le tensioni fra i siciliani e il nuovo re che intende governare e non solo ricevere periodici donativi: l’iniziativa di pubblicare la raccolta dei “capitoli”, cioè le disposizioni del parlamento che avevano assunto forza di legge, è apertamente polemica ed è il canonico Testa che nel 1741, su incarico della Deputazione del Regno, cura l’edizione di due volumi che raccolgono i Capitula Regni Siciliae quae ad hodiernum diem lata sunt. La motivazione ideologica è chiarita nella allegata dissertazione De ortu et progressis juris siculi, che proclama la particolare evoluzione del diritto siciliano e la sua autonomia “nazionale” collocando i diritti feudali nel nucleo originario e fondante della nazione siciliana: Testa appoggia le tesi di Mongitore e del giurista Carlo di Napoli, assieme a loro sostiene che in Sicilia il feudo e la monarchia sono nati con la conquista normanna, i baroni erano stati “commilitoni” del re e i diritti feudali sono eterni, inalienabili.
Con la pubblicazione dei Capitula il canonico Testa diventa il beniamino dei baroni ed è molto attento a non commettere passi falsi: nello stesso 1741 si allinea con Mongitore contro Ludovico Antonio Muratori che, nel De superstizione vitanda, aveva giudicato come il voto di difendere sino al martirio la dottrina dell’immacolato concepimento della Madonna fosse una manifestazione superstiziosa.
Altro argomento spinoso è la fondazione apostolica delle chiese siciliane. Su incarico dell’arcivescovo di Palermo e con l’aiuto della filologia, Giovanni Di Giovanni – anch’egli canonico della cattedrale – sta dimostrando quanto sia improbabile che la fondazione della chiesa palermitana sia dovuta a san Pietro: ma così attacca convinzioni molto diffuse, che esaltano l’autonomia disciplinare e giuridica della Chiesa siciliana. E quando, nel 1743, il canonico Mongitore muore per un colpo apoplettico dopo avere visto il primo dei progettati cinque volumi, nemmeno il viceré o l’arcivescovo osano difendere l’autore di affermazioni tanto impopolari. L’orazione funebre per la morte del Mongitore, recitata dal canonico Testa davanti al senato palermitano, è il momento decisivo: fra i molti meriti dell’estinto è compresa la vigorosa difesa della fondazione apostolica, “contro chi sconsigliatamente le contendesse un sì incontrastabile segnalatissimo pregio”.
Francesco Testa, allievo dei teatini dell’archimandrita Valenti Gonzaga, si propone come interprete dell’assediato “fronte degli antichi”; grazie alle sue competenze di studioso propone una mediazione fra chi applica il metodo storico alle glorie isolane mostrandone la fragilità, e chi fa coincidere l’onore della patria col rifiuto di lasciarle osservare troppo da vicino. Il canonico Testa diventa così il simbolico erede di Mongitore e uno dei personaggi più in vista della chiesa palermitana; a lui vengono affidate le Meditazioni per gli esercizi spirituali del clero, dove argomenta su dignità e obblighi dello stato ecclesiastico senza dimenticare l’importanza di una buona formazione culturale. È inoltre Deputato di pubblica sanità, in questa veste scrive una Relazione istorica sulla peste messinese del 1743.
Nella ricostruzione del biografo Sinesio, fra i potenti personaggi che ricercano la sua amicizia si distingue il principe di Aragona della famiglia Naselli, che nel 1744 ottiene per il suo protetto la carica di Promotore fiscale della Suprema Inquisizione di Sicilia. Nel 1747 il canonico Testa diventa Vicario generale capitolare di sede vacante, nel maggio 1748 è vescovo di Siracusa; richiamandosi al regio patronato re Carlo lo nomina Regio visitatore nelle chiese di Catania e Malta.
Vescovo a Siracusa
A Siracusa il vescovo Testa adotta iniziative che possono considerarsi preludio alla sua politica monrealese: nel 1749 fonda l’Accademia sacra e l’anno appresso quella degli Anapei, istituisce il convitto dei nobili, amplia il seminario. Il suo intervento determina la ripresa dei lavori per la facciata del duomo, il biografo Sinesio avrebbe scritto che portò a perfezione la parte superiore della cattedrale che era stata tempio di Minerva.
Nel frattempo i suoi referenti occupano posizioni di assoluto prestigio: dopo sei anni in Sicilia, l’archimandrita Silvio Valenti Gonzaga è tornato a Roma per divenire segretario di stato del nuovo papa Benedetto XIV; il principe di Aragona è Presidente della Giunta di Sicilia a Napoli, e circa il legame del vescovo Testa con la corte napoletana sono testimoni alcune sontuose opere d’arte da lui commissionate per il duomo di Siracusa, come il ciborio realizzato da Luigi Vanvitelli negli stessi anni in cui è impegnato nella reggia di Caserta.
Arcivescovo a Monreale
Nel maggio 1754 Francesco Testa viene eletto arcivescovo di Monreale e Inquisitore Generale con designazione diretta del re, che si adatta a scegliere il raccoglitore dei Capitula per la più ricca delle chiese di regio patronato; papa Benedetto XIV riconosce i molti meriti del prescelto e ratifica la nomina.
Monreale è la scena in cui l’arcivescovo Testa si muove da demiurgo, è lo “Stato” in cui per quasi vent’anni agisce come Abate e Signore cambiando il volto della cittadina. La sua multiforme attività riformatrice passa attraverso il disciplinamento dei corpi e delle anime e anche del territorio, con l’obiettivo di proporre al Regno un modello di virtù religiosa che dal piccolo Stato teocratico si contrapponga “naturalmente” a quello di virtù civile elaborato dall’Illuminismo. L’arcivescovo è ritratto dal suo biografo Secondo Sinesio come un uomo dalle abitudini esemplarmente frugali, ma nelle sue scelte pubbliche mostra una sensibilità di stampo gesuita, e “tutto ciò che era sacro al supremo Signore vedeasi d’argento e d’oro e di gemme risplendere”.
L’attività di committente urbanistico-architettonico è l’aspetto più immediatamente visibile di un riformismo globale teso a tracciare “via siciliana” per la modernità, che si configura come un progetto di rifondazione religiosa del Regno. Il primo obiettivo è l’educazione del popolo alla morale cristiana, da raggiungere attraverso la formazione dei sacerdoti destinati a guidarlo: da arcivescovo-inquisitore Testa esalta il valore della figura sacerdotale che dev’essere rigorista, senza cedimenti. L’arcivescovo-sommo inquisitore controlla l’Inquisizione e la confessione, i due principali strumenti di intervento sulle coscienze, e nel giugno 1755, in occasione della prima visita pastorale, emana un minuzioso editto che richiamandosi al dettato del Concilio di Trento disciplina i comportamenti del clero.
Monreale sembra il luogo ideale per un progetto teocratico. La vita dei quasi novemila abitanti è organizzata attorno alle 22 chiese, ai monasteri, ai conservatori delle vergini e alle congregazioni: è una città-convento dove le dispute teologiche sono pane quotidiano. Non appena insediato Francesco Testa rinnova il collegio dei gesuiti introducendo nuove materie e rivoluziona l’organizzazione del Seminario istituito nel 1590 da Ludovico II Torres. Monreale si configura come la scuola d’eccellenza dei gesuiti e l’arcivescovo affronta l’esigenza di professionalità, che aveva portato alla crisi del monopolio gesuita in campo educativo, chiamando gli insegnanti più prestigiosi, mettendoli a stretto contatto anche con colleghi lontani dalle loro idee per educare i giovani al confronto dialettico. Quando, nel dicembre 1767, l’espulsione dei gesuiti rischia di lasciare il Seminario senza docenti di prestigio, l’arcivescovo accentua il carattere eclettico della scuola monrealese.
Nel Seminario studia e poi insegna Vincenzo Miceli, che sempre rimanda la pubblicazione della sua ortodossia mistica e trova fieri rivali fra i docenti suoi colleghi. L’ambiente è conflittuale, le divisioni vengono favorite dalla tradizionale separazione tra clero secolare e benedettini; si formano partiti che nelle pubbliche dispute lottano per la supremazia del proprio maestro, solo la presenza dell’arcivescovo riesce a contenere le molteplici gelosie.
Il più temibile avversario di Miceli è il camaldolese Isidoro Bianchi, arrivato a Monreale nel 1770 per insegnare teologia dogmatica. Miceli e Bianchi sembrano incompatibili ma sono entrambi protetti dall’arcivescovo Testa, sono due aspetti della sua politica globalmente riformatrice: Miceli sviluppa teologia e filosofia “nazionali”, Bianchi è più coinvolto nella politica e nel diritto. L’arcivescovo segue le dispute, ha necessità di scegliere quale filosofia possa più utilmente collocarsi nel suo progetto di rifondazione culturale del Regno: occorre un sistema che esalti la virtù religiosa senza tralasciare quella civile e, visto il protagonismo di Isidoro Bianchi e la vaghezza in cui rimane la filosofia di Miceli, è verso il camaldolese che l’arcivescovo Testa propende.
Inquisitore Generale per il Regno di Sicilia
L’esigenza di disciplinamento morale è presente in ogni iniziativa di Francesco Testa, che si associa ad altri nobili-vescovi nelle diocesi di Girgenti, Cefalù, Siracusa e Catania per chiedere al viceré Fogliani di continuare a esercitare la giurisdizione sui laici: la giurisdizione vescovile sospesa nel 1749 viene quindi ripristinata nel 1760 per i reati di adulterio, concubinato, incesto, stupro, coabitazione di sposi promessi e “profanazione delle feste”.
Gli editti dell’arcivescovo-inquisitore si rivolgono al clero e al popolo con lo stesso tono paternamente severo, e grande importanza riveste l’educazione dei fanciulli. Nei quartieri di Monreale l’arcivescovo fonda delle Congregazioni che dovranno fungere da modello per le città della diocesi; il testo da seguire è pubblicato nel 1764 dallo stesso arcivescovo, col titolo Elementi della dottrina cristiana esposti in lingua siciliana ad uso della diocesi di Monreale.
La carica di Inquisitore Generale ha un utilizzo “politico” nel 1758, quando il fronte tradizionalista la adopera per condannare un libro pubblicato dal marchese Tommaso Natale, “giovane ardito” e massone che in versi accattivanti accompagnati da ricca simbologia divulga la filosofia di Leibnitz. I gesuiti chiamano in aiuto l’Inquisizione accusando l’aurore di deridere le “cose sante” e il Sommo Inquisitore Francesco Testa si pronuncia, ma assieme a Tommaso Natale risultano condannati anche Leibnitz e la filosofia moderna. La condanna accresce la curiosità e ne segue un rinsaldarsi del fronte antigesuitico, che si permette sfide aperte: a Palermo, lo stesso giorno in cui viene pubblicato il verdetto dell’Inquisizione, i padri benedettini difendono la filosofia di Leibinitz in una pubblica assemblea. Gli “audaci novatori” usano l’arma dell’ironia per mettere in ridicolo le teorie di Vincenzo Miceli e sulla sua ortodossia mistica fioriscono le satire, impossibili da fermare nonostante i dardi ormai innocui dell’Inquisizione.
Intanto a Monreale, nel maggio 1772, l’ultimo dibattito pubblico diventa una sfida tra le due scuole del Seminario. Una volta inviate a Palermo per essere pubblicate, le tesi sostenute dagli allievi di Miceli sono respinte dal benedettino Giovanni Evangelista Di Blasi – revisore ecclesiastico e collaboratore di Isidoro Bianchi – come “infette di pelagiana eresia”. Testa sottopone le proposizioni incriminate all’esame di tre teologi che le assolvono, quindi le invia a Roma e nello stesso 1772 vengono pubblicate. Ma qualcuno ha nel frattempo denunciato al romano Sant’Uffizio alcuni scritti di Isidoro Bianchi che troppo sapevano di giansenismo; il camaldolese viene quindi invitato a comparire dinanzi a quel Tribunale per difendersi dall’accusa di materialismo e regalismo: le due scuole rivali del Seminario, entrambe protette dall’arcivescovo-inquisitore generale, compaiono da imputate dinanzi al Tribunale romano. Per Francesco Testa è arrivato il momento delle scelte. Ma dopo una breve malattia l’arcivescovo muore il 17 marzo 1773 e l’unica commemorazione rimasta è di Isidoro Bianchi, che sulle fiorentino «Novelle letterarie» scrive “io avevo un padre, un mecenate e un amico insieme, io l’ho stimato ed amato all’estremo, e l’amo ancora di più da che l’ho perduto”.
Riferimenti bibliografici
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- Francesco Testa, Ne' funerali di Antonino Mongitore, canonico della metropolitana chiesa di Palermo. Orazione detta nell'istessa chiesa metropolitana dal canonico Francesco Testa, alla presenza dell'eccellentissimo senato, dalla stamperia di Fr. Valenza, Palermo 1743.
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- Franco Venturi, Bianchi, Isidoro, in DBI, 10 (1968).
Article written by Amelia Crisantino | Ereticopedia.org © 2017
et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]