Valentini, Filippo

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Filippo Valentini (Modena, 1512 ca. – Grigioni, presumibilmente post giugno 1572) è stato un umanista e patrizio modenese perseguitato dall’Inquisizione romana a causa delle sue convinzioni in materia di fede.

Biografia

La Cronaca modenese di Tommasino Lancellotti ricorda che Filippo Valentini, in data 8 settembre 1537, sposò Margherita degli Erri: in quell’occasione il cronista rammentava che lo sposo aveva all’incirca 25 anni, cosicché la data di nascita di quest’ultimo viene a collocarsi intorno al 1512; Ludovico Castelvetro, con il suo Racconto delle vite d’alcuni letterati del suo tempo, ci è testimone dei primi anni di vita del futuro umanista, al quale furono dati i natali dal giurista Girolamo e da Taddea Molza, entrambi appartenenti a due delle più insigni famiglie modenesi dell’epoca.
Nello scritto castelvetrino si rievocano le incredibili qualità intellettuali dimostrate dal giovane Filippo già in tenerissima età, infatti, egli era in grado, a soli 7 anni, di cimentarsi nella scrittura di epistole latine, sonetti e canzoni, dimostrando abilità che più si confacevano ad un adulto piuttosto che ad un giovinetto; alla luce di queste sorprendenti premesse, delle quali Castelvetro criticò la mancata concretizzazione nelle successive stagioni della vita, Girolamo Valentini pensò bene di dare al figlio un’istruzione di prim’ordine: egli inviò dapprima il giovane Filippo alle lezioni modenesi di Panfilo Sassi, dove venivano presi in esame i grandi autori volgari come Dante e Petrarca, e, oltre a questa prestigiosa frequentazione, il Valentini, rimanendo all’interno della scena culturale geminiana, fu un frequentatore delle pubbliche dissertazioni di autori latini ad opera di Dionigi Trimbocco, infine, il Nostro fu mandato dal padre a Bologna per istruirsi nel diritto, oltre che per essere sottratto dall’influenza negativa del cugino Bonifacio, e fu proprio nella città felsinea che egli si dimostrò un valido studente, conseguendo la laurea in utroque iure nel 1529.
Il Tiraboschi definì l’ultimo periodo bolognese prima dell’addottoramento e gli anni successivi come un lasso temporale nel quale «pareva, che il Valentini non trovasse stato di vita», infatti, l’interruzione degli studi nel 1527, a causa della presenza delle truppe di Carlo III di Borbone e della pestilenza all’ombra delle due torri, il conseguente ritorno a Modena, dove s’innamorò di una tal Giulia Robbia, tanto da scrivere in suo onore numerosi sonetti e canzoni, il breve incarico come assessore del podestà di Bologna Alfonso Sadoleto, i tentativi falliti di entrare tra gli assistenti d’influenti personalità dell’epoca come il cardinal Pisani, il vescovo Morone o il duca Alfonso I d’Este, sembrano confermare quanto detto dall’erudito di origine bergamasca nella sua Biblioteca modenese; inoltre, una stabile collocazione in società del Valentini era resa ancor più difficile dalla personalità dimostrata da quest’ultimo: egli era incline ai piaceri della vita e palesava una forte volubilità che lo portava a repentini mutamenti d’opinione ed esempio di ciò è il suo mancato ingresso tra i Canonici regolari veronesi, infatti, in quell’occasione, mentre attendeva la licenza del loro superiore, decise di rientrare immediatamente a Modena a causa di qualche piccolo impedimento, abbandonando il suo iniziale intendimento.
Le letture del Vangelo di Matteo, fatte in casa dell’arciprete Giovanni Tebaldo alla presenza dei più ragguardevoli cittadini modenesi, attirarono sul Valentini i sospetti e le invidie dei domenicani geminiani e tali ostilità, unite a naufragati progetti matrimoniali, spinsero il Nostro lontano dalla città estense: negli anni Trenta egli soggiornò a Padova dove entrò in contatto con eminenti personalità del calibro di Pietro Bembo, Reginald Pole, Alvise Priuli e Cosimo Gheri, nel 1536 fu a Roma al servizio del cardinale Gasparo Contarini e solamente nel 1537 rientrò a Modena dove fu celebrato il soprannominato matrimonio con Margherita degli Erri, che permise a Filippo Valentini di entrare a pieno titolo nell’élite cittadina, giacché la sposa era vedova di Ludovico Sadoleto, fratello del potente cardinale Jacopo.
Il ritorno nella città natia segnò l’avvicinamento del Nostro all’Accademia, la quale rappresentava un importante cenacolo culturale dove si analizzavano, oltre che gli autori classici, anche gli scritti dei riformatori religiosi cinquecenteschi: tale sodalizio, attivo all’ombra della Ghirlandina fin dalla fine degli anni Venti, si guadagnò la palese avversione delle autorità cattoliche con l’irriverente parodia avvenuta in casa di Nicolò Machella il 17 febbraio 1538, nella quale, alla presenza anche di Filippo Valentini, fu messo in ridicolo il predicatore tradizionale Serafino da Fermo; era ormai chiaro che il Nostro fosse sospettato di simpatie eterodosse dalla Chiesa romana, tanto che nella Cronaca modenese si ricorda la predica in duomo, verificatasi in data 16 aprile 1540, nella quale si anticipava la convocazione, davanti all’Inquisizione ferrarese, di Filippo Valentini, Giovanni Bertari, Ludovico Castelvetro e d’altri accademici accusati di scarsa ortodossia, cosicché, alla luce di questa minaccia, l’umanista geminiano decise di lasciare Modena per rifugiarsi nella vicina Bologna, dove trovò nuovamente impiego presso il cardinal Contarini di ritorno dalla legazione alla dieta di Ratisbona del 1541.
Nel 1542, mentre il Valentini si trovava al servizio del prelato veneziano, all’ombra della Ghirlandina erano in corso le trattative tra il vescovo Giovanni Morone ed i maggiori esponenti dell’Accademia, alfine di ricomporre la frattura religiosa che aveva spaccato la città estense: le estenuanti trattative, conclusesi il 3 settembre, portarono all’accettazione, da parte dei più insigni eterodossi geminiani, di un formulario di fede elaborato dal Contarini, e furono proprio questi tentativi di riportare all’ordine i dissidenti religiosi modenesi, uniti alla recente fondazione dell’Inquisizione romana nel luglio di quello stesso anno, a far balenare nella testa del Valentini le prime intenzioni di sottrarsi alle imposizioni della Chiesa cattolica; egli, infatti, lasciò Bologna il 22 luglio, avendo in mente di seguire l’esempio di Bernardino Ochino e Pietro Martire Vermigli, i quali proprio in quei mesi decidevano di lasciare l’Italia, espatriando verso terre protestanti, tuttavia gli originari propositi del Modenese furono ridimensionati, tanto che egli dapprima si diede infermo per non sottoscrivere il decalogo moroniano, ed in seguito si piegò, accettando la proposta del vescovo geminiano.
La sottoscrizione del formulario di fede, proposto da Giovanni Morone, fu una pacificazione confessionale che solo all’apparenza riportò nell’alveo cattolico i più famosi eterodossi modenesi, infatti, questi ultimi moderarono le esternazioni del proprio pensiero in materia di fede, ma certamente non mutarono le loro convinzioni e di questo tipo di comportamento non fu alieno Filippo Valentini, il quale, nella notte tra il 4 ed il 5 giugno 1545, fu l’obiettivo di un fallito tentativo di arresto compiuto su espresso ordine di papa Paolo III; la spedizione nella casa del Nostro era figlia del breve papale del 28 maggio, dove, quest’ultimo era descritto come il più pericoloso eretico che si trovasse in città: una tal rappresentazione era stata influenzata da Pellegrino degli Erri, che dopo aver subito una burla, covava sentimenti di vendetta nei confronti di Filippo e per questo aveva invitato le autorità ad agire nei confronti di quest’ultimo, tuttavia rimane il fatto che il Valentini fosse un personaggio considerato di dubbia ortodossia e per questo la sua permanenza a Modena lo esponeva alle ritorsioni delle autorità religiose tradizionali.
Il tentativo di arresto, insieme con il bando ducale del 24 maggio che vietava espressamente il possesso di libri eterodossi ed ogni discussione in materia di fede, rese inospitale per il Valentini la propria città natia, cosicché egli iniziò una lunga serie di spostamenti: si nascose a più riprese a San Martino in Rio, dove era commissario del signore del luogo, si presentò a Ferrara, per dimostrare la propria innocenza di fronte al capo di casa d’Este, dimorò a Parma, dove divenne auditore del governatore Camillo Orsini ed infine giunse a Trento, città nella quale ricoprì l’incarico di podestà; Filippo Valentini, a parte qualche fugace rientro a Modena nei mesi precedenti su protezione di Ercole II d’Este, ritornò stabilmente all’ombra della Ghirlandina nel 1549 e solamente due anni dopo il Tiraboschi poteva dire che «ei vivesse tranquillo e sicuro», ricoprendo numerosi impieghi nelle magistrature cittadine.
Il Nostro, nonostante il duro peregrinare subito per motivi religiosi, non mutò le proprie convinzioni, tanto è vero che negli anni Cinquanta si rese protagonista a Modena di condotte le quali lasciano facilmente intuire la sua adesione ad ideali riformati: le frequentazioni del predicatore eterodosso Giovanni Francesco da Bagnacavallo e la presenza del suo nome nel quadernetto del vescovo Egidio Foscarari, dove venivano annotati coloro che avevano deciso di beneficiare delle riconciliazioni private permesse dalle disposizioni di papa Giulio III, sono indizi inequivocabili delle persistenti opinioni eretiche del Valentini.
La relativa libertà di cui godevano gli eterodossi modenesi, tra cui vi era anche Filippo Valentini, era stata garantita dai moderati governi di Giulio III e di Egidio Foscarari, ma la situazione cambiò profondamente con l’elezione al soglio pontificio, avvenuta il 23 maggio 1555, dell’intransigente cardinale Gian Pietro Carafa, il quale iniziò una lotta senza quartiere ad ogni deviazione rispetto all’ortodossia romana: per quanto riguarda Modena, egli, a pochi mesi di distanza dal suo insediamento, emanò un breve nel quale si chiedeva, al duca Ercole II d’Este, l’estradizione verso i territori pontifici di quattro tra le maggiori figure del dissenso religioso geminiano, ossia Filippo e Bonifacio Valentini, Ludovico Castelvetro ed Antonio Gadaldino.
La richiesta di papa Paolo IV scatenò un vero e proprio caso diplomatico che vide contrapposta la Santa Sede alle magistrature modenesi, con il duca di Ferrara nel ruolo di mediatore: le autorità della città emiliana consideravano il breve papale come un’eccessiva ingerenza romana nelle vicende locali di una realtà che era già stata pacificata, almeno in teoria, dal punto di vista religioso attraverso il formulario di fede del 1542, ed inoltre veniva contestato il fatto che all’ombra della Ghirlandina era presente un ufficio dell’Inquisizione romana, cosicché non vi era motivo alcuno per estradare i quattro a Roma.
Le protezioni ducali, le quali nascostamente aiutavano i ricercati in virtù dell’indipendenza giurisdizionale dei territori estensi che cercavano di difendere, permisero a Filippo Valentini di non cadere preda del Sant’Uffizio, tuttavia egli era ben consapevole della precarietà della sua condizione, tanto che egli, in due lettere scritte nel 1556 al segretario ducale Giambattista Pigna, preannunciava di «andare in parte, dove forse mai più mi udirà nominare»; dopo aver lasciato l’Italia, le notizie sul conto del Nostro diventano sempre più vaghe, tuttavia è possibile dire con certezza che egli si trovava a Coira nell’ottobre del 1558, in servizio presso gli ambasciatori francesi nelle Tre Leghe grigionesi.
Il Modenese, durante i suoi spostamenti, giunse a Zurigo, città nella quale non trovò nessun impiego stabile e dove era ancora controllato da informatori del Sant’Uffizio, cosicché egli si trasferì, nel 1562, a Chiavenna e là ritrovò numerose personalità che avevano caratterizzato la scena ereticale geminiana come Ludovico Castelvetro, Francesco Porto e Giovanni Francesco da Bagnacavallo; il Valentini rimase in questa località all’incirca fino al 1570, allorché il pastore Scipione Lentolo impose ai cittadini italiani, in concerto con le autorità grigionesi, l’adesione alla rigida dottrina della Confessio helvetica posterior: il Nostro, maggiormente incline a posizioni anabattiste, e certamente contrario all’omologazione religiosa, si trasferì a Piur, dove si risposò e visse tranquillamente.
Le notizie, a proposito della morte di Filippo Valentini, sono incerte, tuttavia le testimonianze più tarde su quest’ultimo sono conservate in una relazione di Scipione Lentolo, che, continuando a sorvegliare il fuggiasco emiliano nell’ambito del processo di scomunica contro il pastore Girolamo Turriani, definisce il Nostro come abitante a Piur nel giugno 1572.

Ricostruzione del pensiero religioso

Lucia Felici, nella sua curatela de Il principe fanciullo, riepiloga che cosa possiamo consultare oggigiorno di quanto scritto dal Valentini: diversi sonetti ed epigrammi, dei quali alcuni sono solamente manoscritti e conservati in importanti biblioteche europee, la famosa traduzione in ottave dell’Ars poetica di Orazio, presente in copia all’interno dell’opera manoscritta del letterato Camillo Coccapani, e il già citato trattato de Il principe fanciullo; gli studiosi contemporanei non possono che rammaricarsi della dispersione di gran parte della produzione letteraria di Filippo Valentini, la quale avvenne soprattutto attraverso la requisizione, per opera dell’Inquisizione romana, delle sue carte nel 1545, allorché egli fu oggetto del già ricordato tentativo di arresto nella notte tra il 4 ed il 5 giugno, inoltre furono decisive la scomparsa dell’eredità di Francesco Betti, dove era confluita gran parte dei testi del Modenese, e i successivi smarrimenti nei quali andarono perduti numerosissimi componimenti, che Girolamo Tiraboschi definiva ancora rintracciabili nel tardo Settecento.
Un efficace strumento per comprendere il pensiero del Valentini è rappresentato dal frammento della canzone di quest’ultimo in onore di Carlo V, conservato all’interno di un codice miscellaneo della Biblioteca Universitaria di Breslavia: sulla datazione di tale componimento gli esperti non hanno parere unanime, tuttavia sembra probabile che esso sia stato redatto nel periodo in cui il Modenese era al servizio del cardinal Contarini, ossia alla metà degli anni Trenta del XVI secolo; il testo, nonostante sia incompleto e redatto da un Valentini non ancora nel pieno della maturità intellettuale, riporta molti temi cari al futuro umanista, tra i quali l’irenismo della pax christiana, che mai come allora sembrava così vicino, grazie alle favorevoli congiunture politiche vantaggiose per l’imperatore, e la nobilitazione del volgare, che, diversamente da quanto risultava da molti lavori coevi, era considerata lingua adatta a trattare temi elevati come quelli politici e religiosi.
Le conoscenze del pensiero del Nostro possono essere approfondite tramite l’analisi di uno scambio di sonetti tra quest’ultimo e Ludovico Castelvetro, databile al 1536: da tale dibattito, del quale sono giunti a noi solamente il sonetto proponente del Valentini e la risposta del Castelvetro, si evince che il primo suggeriva al secondo di passare ad opinioni evangeliche, se non addirittura valdesiane, abbandonando le visioni razionalistiche e biblicistiche, maggiormente prossime a riflessioni erasmiane ed umanistiche.
L’esortazione rivolta nel sonetto non deve sorprendere, giacché è bene ricordare che Filippo Valentini era entrato in contatto con personalità vicine al non conformismo religioso italiano del XVI secolo: egli aveva vissuto nella Padova di Pietro Bembo, Reginald Pole, Alvise Priuli e Cosimo Gheri, era stato al servizio di personalità come Gasparo Contarini, Camillo Orsini e Cristoforo Madruzzo, a Modena aveva conosciuto e difeso Camillo Renato, Bartolomeo Fonzio, Bartolomeo della Pergola e Giovanni Francesco da Bagnacavallo; gli scritti a noi pervenuti, seppur frammentari e disorganici, sono ovviamente legati a frequentazioni come quelle appena ricordate, cosicché è possibile leggere un sonetto dedicato all’ingresso di Camillo Molza nell’Accademia, dove si esalta la figura dell’eterodosso Giovanni Bertari, oppure si può consultare un analogo componimento poetico in onore Della vera tranquillità dell’animo di Ortensio Lando.
Il testo più famoso di Filippo Valentini, sopravvissuto fino a giorni nostri, è certamente Il principe fanciullo: quest’opera, dedicata a Renata di Francia ed Ercole II d’Este, è databile ai primi anni Quaranta e rappresenta un trattato pedagogico utile all’istruzione del giovane Alfonso, futuro duca di Ferrara; lo scritto, che si rifà all’Institutio principis Christiani di Erasmo, è un esempio di antimachiavellismo, dove è forte la concezione etica del potere politico, inoltre la proposta educativa presentata nello scritto, trova fondamento, per quanto riguarda l’aspetto religioso, su di un’interpretazione spiritualistica di tale orizzonte, il quale indubbiamente è debitore delle visioni valdesiane dell’autore.
L’adesione del Modenese all’eterodossia confessionale cinquecentesca è confermata anche da testimonianze diverse dalla produzione letteraria, infatti, egli è ricordato come una figura centrale del dissenso ereticale anche in una memoria, come quella di Antonio Bandinelli, la quale ricorda che Filippo Valentini era considerato uno dei più ragguardevoli accademici, tanto da essere designato come officiante nelle cerimonie eucaristiche, inoltre, un documento processuale, conservato negli archivi romani del Sant’Uffizio, rammenta come il Nostro fosse un volenteroso traduttore delle opere di Lutero insieme a Ludovico Castelvetro: è indubbio che la rapida carrellata di memorie, le quali concorrono alla definizione del profilo confessionale del Modenese, dà l’immagine di un uomo legato per tutta la vita a convinzioni religiose molto lontane dall’ortodossia romana; tuttavia, il Modenese man mano che passavano gli anni si avvicinò ad una forma di Cristianesimo lontana da qualsiasi costrizione dottrinale, cosicché egli divenne, una volta giunto in terra riformata, una figura indesiderata anche per i protestanti, giacché questi ultimi iniziavano a cristallizzare il proprio credo, tendendo ad espellere coloro che non si riconoscevano pienamente in esso: egli, definito di tendenze anabattiste dagli ortodossi chiavennaschi guidati dal pastore Scipione Lentolo, fu costretto solamente ad una “piccola diaspora” nella vicina Piur, ma tale allontanamento è sufficiente per comprendere come Filippo Valentini fosse rimasto un individuo caratterizzato da una spiccata autonomia intellettuale, che risultava allergica a qualsiasi imposizione, sia cattolica sia protestante.

Bibliografia

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Article written by Samuele Reggiani | Ereticopedia.org © 2017

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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