Mocenigo, Filippo

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Filippo Mocenigo (Venezia, 11 aprile 1524 - Monte Rua, Colli Euganei, 1586) è stato un patrizio veneziano ed arcivescovo, perseguitato dall'Inquisizione romana.

Biografia

L'avvio della carriera politica e la "riconversione" ecclesiastica

Nato a Venezia l’11 aprile 1524 da Chiara di Carlo Contarini e da Piero dei Mocenigo di S. Samuele, studiò filosofia all’Università di Padova.
Nel suo cursus honorum ricoprì le cariche di savio agli Ordini nel 1552; fu inviato successivamente come ambasciatore straordinario in Polonia nel 1553, per poi tornare a Venezia come provveditore alle Pompe e avogadore fiscale nel 1554. Dopo essere stato inviato come oratore ordinario presso il duca di Savoia nel 1559, non appena fece ritorno in patria fu designato da Venezia – e caldeggiato anche dal pontefice Pio IV – il 9 gennaio 1560 come candidato per l’arcivescovato di Nicosia nell’isola di Cipro. Ricevette la carica di metropolita il 13 marzo 1560 e fu consacrato il 1° maggio. Fino a quel momento infatti il Mocenigo era ancora laico.

Il governo dell'arcidiocesi di Nicosia

Partito nell’agosto del 1560 con il filosofo Francesco Patrizi, con il vicario ferrarese Giacomo Sacrati, nipote di Jacopo Sadoleto e futuro vescovo di Carpentras, con il maestro di casa Alvise Graziani, e con due gesuiti, prsese possesso dell’episcopato il 17 settembre.
La partecipazione al Concilio di Trento lo tenne occupato lontano dalla sua diocesi e dai vescovi suffraganei dell’isola: la figura di Filippo Mocenigo aveva già cominciato a delinearsi come quella del vescovo residente, ligio agli antichi e sempre validi canoni conciliari che prevedevano la presenza fissa del pastore nella propria comunità diocesana: questo dovere era venuto meno a Cipro prima del suo arrivo e aveva generato tra la comunità greca ortodossa e quella cattolica problemi legati ai riti e al culto divino. E fu proprio al Concilio di Trento che il vescovo di Nicosia votò a favore della residenza permanente dei vescovi per diritto divino, senza con questo negare l’indiscussa preminenza dell’autorità papale.
Al termine del Concilio, Filippo Mocenigo partì per Roma in compagnia dell’inquisitore di Venezia, dove divenne consultore del Sant’Uffizio: qui gli venne assegnata la responsabilità generale dell’Inquisizione nell’isola di Cipro, dove, in ossequio ai canoni da lui sostenuti e votati al Concilio di Trento, tornò a risiedere nel settembre del 1564.
L’equilibrio tra le diverse realtà che componevano la società civile e religiosa sembrava ormai giunto ad un momento di rottura, e fu compito di Filippo Mocenigo intervenire per mantenere lo status quo: i soggetti della querelle furono da un lato le rimostranze del clero greco, che si facevano sempre più forti; dall’altro la politica della Serenissima che non voleva lasciare spazio a rivolte nell’isola, soprattutto nella popolazione greca che vedeva nel suo clero una risposta alle proprie aspettative. E ancora, la necessità di mettere in pratica le norme tridentine in materia di culti e rito.
Per sanare ogni divergenza prima di un possibile conflitto, Filippo Mocenigo indisse un sinodo diocesano nel 1566, con i vescovi delle diocesi suffraganee dell’isola e del clero greco. A quel tempo risalgono il suo pellegrinaggio in Terra Santa, probabilmente avvenuto al termine del sinodo, e la costruzione di una nuova cinta muraria in funzione anti-turca nel 1568.

Il rientro definitivo in Italia

Nel maggio 1568 venne richiamato in patria dal Consiglio dei dieci: il motivo era infatti legato alla divergenze avute, in seguito al sinodo, con un vescovo greco dell’isola. La preoccupazione per la stabilità civile e religiosa nell’isola erano arrivate anche a Roma presso la corte del papa-inquisitore Pio V. Due anni dopo, nel 1570, Cipro cadeva sotto i colpi delle armate turche e Filippo Mocenigo perdeva i benefici legati alla sua posizione. Allorché, prese dimora a palazzo Mocenigo in Prato della Valle a Padova, dove poté rientrare in contatto con alcuni intellettuali ed ecclesiastici legati a doppio filo con lo Studio della città. In un clima di studio, di ricerca di una nuova posizione nella gerarchia cattolica – per la quale si appellò a papa Gregorio XIII e al cardinale arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo – e le difficoltà finanziarie, dovette appellarsi al cugino doge Alvise Mocenigo per dirimere una questione patrimoniale aperta con il fratello Marcantonio.

Gli ultimi anni: il processo, il ritiro e la morte

Nell’aprile del 1574, mentre attendeva l’esito sulla sua possibile successione al patriarcato di Aquileia, la commissione di nomina mise a conoscenza il prelato dell’esistenza di un procedimento a suo carico depositato presso il Sant’Uffizio: si trattava della denuncia presentata nel 1561 da fra Antonio da Venezia, inquisitore domenicano di Pera, il quale era stato in compagnia del Mocenigo a Trento. La denuncia era stata fatta per il possesso di un libro proibito, la Geografia di Claudio Tolomeo commentata dal cartografo ed ebraista luterano Sebastian Münster, e per aver parlato davanti ad alcuni testimoni sul rapporto tra la fede e le opere, sostenendo la necessità di riaprire la questione al concilio, posizione questa che poteva nascondere simpatie per il pensiero luterano.
Cominciò una serrata negoziazione presso la curia pontifica tra l’ambasciatore di Venezia – poiché, dopotutto il vescovo Mocenigo, era cugino del doge – e i cardinali a capo dell’Inquisizione. Il caso del Mocenigo venne così esaminato dal teologo gesuita Francesco Toledo il quale lo prosciolse da ogni accusa, insistendo invece sul troppo zelo dal clima tipicamente contro-riformistico che aveva cominciato a diffondersi in curia.
Tuttavia, anche una sola accusa di eresia non giovava alla carriera di un prelato, che veniva reso inabile alla cura d’anime. Fu per questo che nel luglio del 1574 il patriarcato di Aquileia venne assegnato ad un altro candidato, e nel settembre dello stesso anno ricevette soltanto il titolo onorifico – con riscossione di un beneficio – di assistente della cappella pontificia.
Rimasto in curia, negli anni successivi vide sfumare tutte le possibilità di nomina ai benefici vacanti nel domino veneto. Questa circostanza non soddisfaceva le sue aspettative rispetto alla possibilità di essere totalmente reintegrato nella sua dignità e nel suo ministero, e così nel 1579 il Mocenigo cominciò a chiedere l’aiuto di Venezia affinché la sua posizione fosse chiarita a Roma, ma i conflitti che stavano ridisegnando gli equilibri politico-istituzionali interni al patriziato veneziano e l’appartenenza della sua famiglia allo schieramento dei «vecchi» indussero la Repubblica a disinteressarsi del suo caso. Dopo aver persino indirizzato nel 1581 a papa Gregorio XIII un’opera, le Universales institutiones ad hominum perfectionem quatenus industria parari potest, con la quale lo invitava ad esercitare appieno le sue prerogative papali per sovrapporsi alle congregazioni dei cardinali – e nel suo caso, a quella dell’Inquisizione – fu invece rinviato proprio al Sant’Uffizio affinché fosse sottoposto nuovamente a giudizio. Il processo iniziò l’8 giugno 1583.
Dagli archivi inquisitoriali emerse un’altra denuncia presentata nel 1576 contro il Mocenigo dal benedettino Teofilo Marzio da Siena. Il prelato veneziano gli aveva dato da leggere le Vie et progressi spirituali, un trattato spirituale da lui redatto in volgare e dedicato alla sorella Paola. L’opera era inedita ma aveva già ricevuto licenza di stampa dalle autorità ecclesiastiche veneziane. Gli interrogatori del Sant’Uffizio, condotti personalmente dal cardinale inquisitore Santoro e basati su una lista di tesi filosofico-teologiche estrapolate dal trattato volgare, si trasformarono in una disputa con il Mocenigo. La sentenza fu pronunciata il 6 ottobre 1583: il Mocenigo non era eretico né sospetto d’eresia ma le copie manoscritte delle Vie et progressi spirituali furono condannate alla confisca e alla distruzione per le proposizioni ambigue, oscure e pericolose che il trattato conteneva. Lasciata Roma, Filippo Mocenigo morì nel 1586 nell’eremo camaldolese di Monte Rua sui colli Euganei.

Bibliografia

  • Elena Bonora, Mocenigo, Filippo, in DSI, vol. 2, p. 1053.
  • Elena Bonora, Mocenigo, Filippo, in DBI, vol. 75 (2011).
  • Elena Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Laterza, Roma-Bari 2007.
  • Evangelia Skoufari (a cura di), La Serenissima a Cipro, Viella, Roma 2011.
  • Evangelia Skoufari, L'Arcivescovo Filippo Mocenigo e l'applicazione della Riforma tridentina a Cipro in Cyprus and the Renaissance, a cura di Benjamin Arbel - Evelien Chayes - Herald Hendrix, Brepols Publishers, Turnhout 2012, pp. 205-230.
  • Evangelia Skoufari, Cipro veneziana (1473-1571). Istituzioni e culture nel regno della Serenissima, Viella, Roma 2013.

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Article written by Vincenzo Vozza | Ereticopedia.org © 2014

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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