Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444
Ferrante Sanseverino, principe di Salerno (Napoli, 18 gennaio 1507 - Orange, novembre 1568), è stato un feudatario napoletano. Contrastò il viceré don Pedro de Toledo per impedire che a Napoli fosse instaurata l’inquisizione “all’uso di Spagna”.
1.La vita: gli anni giovanili (1507-1533)
Ferrante Sanseverino discendeva da una famiglia venuta dalla Normandia in Italia meridionale verso il 1045 al seguito di Roberto il Guiscardo che aveva concesso la contea di Sanseverino, uno stato nello Stato per la vastità delle terre infeudate, divisa poi in vari rami. Quello dei principi di Salerno si formò nel 1463, quando Roberto, figlio di Giovanni, conte di Marsico, acquistò la città di Salerno. Ferrante nacque nel 1507 dal principe Roberto, conte di Marsico e signore di molti altri feudi, e da Marina d’Aragona, figlia di Alfonso, duca di Villahermosa, fratello naturale del re. Il matrimonio, avvenuto l’anno precedente era stato concluso dal re Ferdinando per controllare il vasto patrimonio, poiché la famiglia, coinvolta nella “congiura dei baroni” e nelle successive guerre, poteva creare spiacevoli sorprese (Natella, 2018).
Dopo la morte del padre ad Agropoli, Il 2 novembre 1508 (Benaiteau, 2017), il piccolo Ferrante si trasferì a Piombino con la madre che aveva sposato il principe Iacopo Appiano. Dopo la morte della madre, nel 1511, tornò a Napoli dove il re Ferdinando lo pose sotto la tutela del nonno Bernardo Villamarina, conte di Capaccio e grande ammiraglio del regno Musarra, 2020), per far crescere il giovane principe fedele e devoto agli spagnoli (Addante, 2017). Nel 1516, col consenso di re Ferdinando, data la giovane età, aveva sposato Isabella Villamarino, figlia di Bernardo (Tesauro Oliviero, 2009). Questo matrimonio rientrava in un preciso piano del re Carlo V che, seguendo le orme paterne, voleva controllare i vasti possessi feudali dei due sposi, che si estendevano tra Salerno e Capaccio: difatti Isabella dopo la morte del padre, nel 1517, aveva ereditato la contea di di Capaccio insieme al alcuni feudi sardi, ampliando ancor più lo Stato di Salerno Addante, 2017; Di Salvia, 2019). La principessa aveva ereditato anche una galera, utilizzata nella battaglia di Tunisi nel 1535 (Sirago, 2028).
Dopo la morte di Bernardo la tutela fu affidata alla madre della fanciulla, Isabella de Cardona, anch’ella di nobili natali, sorella del viceré Ramon de Cardona, una donna colta e raffinata ma anche abile nel gestire il patrimonio familiare che la esercitò fino al 1522, quando il principe compì 15 anni (Di Salvia, 2019). Donna Isabella fece impartire ai due fanciulli una solida educazione da Pomponio Gaurico, noto umanista napoletano, rimasto a Salerno fino al 1526 (Bacchelli, 1999). In quel periodo i due sposi, sotto la guida degli insegnamenti di Isabella e del loro precettore, crearono a Salerno una corte simile a quella ischitana di Costanza d’Avalos e Vittoria Colonna (Magalhães, 2019), organizzando fantasmagoriche feste anche nel palazzo napoletano (Del Grosso, 2019 e 2020). Era anche un mecenate e amava circondarsi di letterati, come il filosofo Agostino Nifo, il suo maestro Pomponio Gaurico e la poetessa Laura Terracina, che era presente anche nella corte del cugino, Pietro Antonio Sanseverino, principe di Bisignano (Mutini).
Il principe durante il tentativo perpetrato da Odet de Foix, conte di Lautrec di invadere il regno di Napoli (1527-28) difese strenuamente Salerno insieme al cugino Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara, offrendo uomini e somme ingenti per la difesa del regno. Finita la guerra dopo l’improvvisa morte di peste del generale francese, tra il 1529 e 1530 partecipò col viceré Filiberto di Châlons, principe d’Orange, all’assedio contro la Repubblica fiorentina, in cui Firenze fu riportata sotto il dominio mediceo (Addante, 2019). Nel 1530, il 22 febbraio, si recò a Bologna per assistere all’incoronazione di Carlo V: ma in quell’occasione il principe non ottenne il riconoscimento del suo prestigio, perché per portare le insegne dell’Imperatore furono scelti due spagnoli (Rosso, 1770, p.37). L’anno seguente cominciò la sua opposizione: nel Parlamento generale si oppose alla richiesta della Spagna di un donativo di 600.000 ducati, da pagare in un anno,, sottolineando che il regno era prostrato dalle spese di guerra: il tentativo fallì, anche se per il donativo da pagare furono concesse delle dilazioni e venne stabilito di nominare un nuovo viceré in luogo del cardinale Pompeo Colonna, ritenuto troppo intransigente (Addante, 2019). In realtà, l’anno seguente venne nominato don Pedro de Toledo ancor più intransigente, che governò per un ventennio (Musella Guida, 2008-2009; Hernando Sánchez, 1994, 2016, 2019) e portò alla rovina il principe (Colapietra, 1985; Pilati, 2015).
2. Il segretario Bernardo Tasso
Bernardo Tasso giunse in regno al seguito di Alfonso d’Avalos, che aveva accompagnato nella impresa in Ungheria (1532). Il D’Avalos, tornato in regno tra il 1532 ed il 1533, lo condusse ad Ischia per presentargli Vittoria Colonna, moglie del defunto cugino Ferrante, il Gran Pescara, sua cugina acquisita (de la Torre Ávalos, 2016) e maestra di poesia (Toscano, 2000). L’incontro fu felice perché da quel momento Bernardo strinse con la poetessa una amicizia durata tutta la vita (Magalhães, 2019; Morace, 2023). Probabilmente ad Ischia fu presentato al principe di Salerno Ferrante Sanseverino, parente di Alfonso d’Avalos, che poi lo tenne con sé alla sua corte come segretario per oltre vent’anni (de la Torre Ávalos, 2016). Anche se svolgeva i suoi incarichi ufficiali, Bernardo non tralasciava la poesia, dedicando il secondo libro degli Amori (XI-XIII) ai principi, suoi mecenati.
In quel periodo il Mediterraneo era preda di turchi e barbareschi che devastavano le coste del regno meridionale e della Sicilia. Perciò Carlo V decise di allestire una potente flotta per conquistare Tunisi, “nido” del corsaro Barbarossa. Anche il viceré Toledo si adoperò al riarmo, facendo costruire galere nell’arsenale napoletano e chiedendo aiuto alle più importanti famiglie napoletane, che raccolsero 150.000 ducati. Inoltre, alcuni di essi, Alfonso d’Avalos, Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, e Pietrantonio Sanseverino, principe di Bisignano, armarono una galera ciascuno, partecipando alla battaglia (Sirago, 2018). Dopo un lungo combattimento, durante il quale il Barbarossa era riuscito a fuggire, conquistata Tunisi, Carlo V tornò in Sicilia, poi risalì la penisola festeggiato in modo regale in Calabria dal principe di Bisignano; sostò anche a Salerno dal cugino, il principe Ferrante che organizzò insieme alla moglie ed al suo segretario splendidi festeggiamenti. Arrivato trionfalmente a Napoli in novembre, vi rimase alcuni mesi, festeggiato dalla nobiltà, in primis i Sanseverino, per organizzare il matrimonio della figlia Margherita d’Austria con Alessandro de’ Medici. Molto apprezzate erano le commedie allestite in onore dell’imperatore dal fedele Bernardo, secondo i dettami dei principi, amanti del teatro, che avevano fatto costruire nel loro palazzo un teatro, facendovi entrare ad assistere agli spettacoli anche i cittadini. I nobili, insieme al generale della flotta genovese Andrea Doria, avrebbero voluto che Carlo V destituisse l’intransigente Toledo: ma l’imperatore lo riconfermò nel suo incarico, ben sapendo che la politica toledana era necessaria per mantenere i feudatari al loro posto (Sirago Rastrelli, 2024).
Nel marzo del 1536 Carlo V lasciò Napoli accompagnato da molti nobili, tra cui il principe Ferrante, mentre Bernardo, che aveva sposato Porzia de’ Rossi, poteva rimanere a Sorrento per dedicarsi alle lettere. Ma il problema della guerra in Mediterraneo era sempre presente. Nell’estate del 1537 Barbarossa, riarmata la flotta, riuscì a distruggere Castro in Terra d’Otranto. L’anno seguente Carlo V riuscì a firmare una tregua con il re di Francia Francesco I, che alcuni anni prima si era alleato col sultano Solimano il Magnifico. Infine, nel 1541, organizzò una spedizione contro Algeri che si risolse in un disastro. In quegli anni il principe Ferrante, accompagnato dal fedele Bernardo, partecipò a numerose missioni diplomatiche presso la corte madrilena. Ma Bernardo temeva il mar Mediterraneo, ormai in fiamme, solcato dalle galere del Barbarossa, come scriveva in una lettera inviata nel 1539 al suo amico, il letterato Vincenzo Martelli: perciò chiedeva al principe di poter rimanere a Sorrento, patria della moglie, dove nacque il figlio Torquato, per dedicarsi agli “ozi” letterari (Sirago Rastrelli, 2024).
3.La sollevazione del 1547 contro l’introduzione dell’Inquisizione “all’uso di Spagna”
Dal 1542, anno in cui papa Paolo III, Alessandro Farnese, istituì in Roma la Sacra Congregazione del Santo Ufficio per combattere l’eresia, la situazione cominciò a cambiare poiché si intensificarono le indagini su quelli che erano coinvolti in movimenti ereticali.
Lo stesso anno il Toledo cominciò ad attuare una svolta nella politica vicereale, inserendo uomini suoi nei gangli vitali dell’apparato statale, in primis il Segretario del Regno, che doveva espletare un compito delicatissimo, redigere i verbali del Consiglio Collaterale, il più importante organo di governo. Queste restrizioni si riverberarono anche in ambito culturale: con la prammatica del 1544 al Cappellano Maggiore fu delegato il controllo della stampa, della vendita e del possesso dei libri di teologia editi negli ultimi 25 anni, per controllare l’eresia, diffusa da Juan de Valdés, venuto a Napoli nel 1534, dove morì nel 1541. Le “conversazioni” erano continuate anche dopo la sua morte nelle Accademie create dagli intellettuali che avevano conosciuto il Valdés e Bernardino Ochino, venuto a Napoli verso il 1536, chiuse dal Toledo (Pilati, 2015). Le accademie erano frequentate anche da nobildonne “in odore di eresia”, in primis Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga, amiche di Bernardo Tasso, con cui conversavano affabilmente di queste nuove questioni religiose (Magalhães 2012; Morace, 2014 e 2023). Una di questa era l’Accademia dei Sereni, che si riuniva nella casa del principe Ferrante. Il giro di vite in un momento di crisi economica, causata soprattutto dai cattivi raccolti, esasperò sia l’aristocrazia che la popolazione, creando un diffuso clima di sospetto. Nella primavera del 1547 la situazione peggiorò, anche perché la Francia era interessata a fomentare i focolai di rivolta. In questo contesto il papa Paolo III decise di avocare a sé la persecuzione degli eretici introducendo l’inquisizione romana, in sostituzione di quella diocesana, che prevedeva la perdita della libertà personale e il controllo dei beni: questo dette il via alla rivolta, scaturita dall’unione del popolo con la nobiltà, che temevano fosse una manovra con la quale poi si sarebbe introdotta l’inquisizione “all’uso di Spagna”, come si era fatto nel 1535 nei Paesi Bassi (Pilati, 2015).
Dopo i moti in maggio i Sedili di Napoli scelsero come ambasciatore da inviare alla corte di Spagna Ferrante Sanseverino, che doveva essere accompagnato da Placido de Sangro, nominato ambasciatore della città: essi dovevano adoperarsi per chiedere di non introdurre a Napoli l’Inquisizione “all’uso di Spagna” e lamentarsi del governo del Toledo. Essi arrivarono in luglio a Norimberga, ma fu ricevuto solo il Di Sangro, che poi ripartì, mentre il Sanseverino rimaneva quasi come ostaggio (Del Mercato, 2019). Nello scambio di missive con il suo segretario Bernardo il principe manifestava le sue perplessità sull’esito della missione, consapevole che il discredito avrebbe colpito solo la sua persona (Pilati, 2015). Difatti a Napoli la situazione stava degenerando: al suo rientro, il 7 agosto, Placido de Sangro, riferiva che l’imperatore ordinava duramente alla città di rientrare nei ranghi, cosa che il popolo fece proprio per la permanenza a Norimberga del principe Ferrante come “ostaggio”: intanto il viceré comunicava che l’inquisizione non sarebbe stata introdotta nel Regno e la città era perdonata per i moti (Amabile, 1892, Osbat, 1974, Colapietra, 1985, Cernigliaro, 2008). Ma continuava ad accusare il principe Ferrante di ambire al trono di Napoli, facendo sollevare il popolo e i sedili nobili contro di lui e contro la Spagna. Il re gli aveva creduto ed aveva ordinato al principe di astenersi dalla politica e ridursi a vita privata. Egli invece non obbedì: tornato in patria nel giugno 1548, dopo alcuni giorni trascorsi a Salerno, tornò a Napoli dove fu accolto in modo trionfale, acclamato da popolo mentre cavalcava per la città con un apparato di lusso. Ma da quel momento iniziò la sua parabola discendente (Del Mercato, 2019).
4. Gli ultimi anni
Dopo la cavalcata il principe andò dal viceré che, adducendo un problema di gotta, non si alzò; poi, quando si accomiatò, dicendo che sarebbe tornato a Salerno, lo salutò freddamente. Ormai la posizione del principe era definitivamente compromessa. Quando egli si recò a Savona, il 24 novembre 1548, per rendere omaggio a Filippo, figlio ed erede di Carlo, fu accolto ancor più freddamente. L’anno seguente si diffuse la notizia che la principessa Isabella era incinta ma il viceré, sospettando che fosse un trucco del principe per assicurarsi un erede, impedendo alla corte di incamerare i beni, vigilò attentamente. Poi a partire dal 1550 compì una serie di atti volti a distruggere il potere politico ed economico del principe, facendo arrestare l’anno seguente alcuni suoi familiari. Lo stesso principe subì un attentato, per il quale fu fatto il nome di don Garcia, figlio del viceré, generale della flotta napoletana.
Il principe decise allora di allearsi con la Francia e l’Impero Ottomano. Fuggito a Venezia, vi arrivò dopo un viaggio avventuroso, per evitare le truppe inviate dal viceré, che aveva saputo del piano che il principe stava ordendo. Il 23 gennaio 1552 Carlo V lo convocò a Innsbruck ma egli non si presentò. Intanto il Toledo lo informava dell’imminente attacco a Napoli delle flotte francese e ottomana, organizzato dal principe, che aveva inviato in Francia il suo segretario Bernardo. Nello stesso tempo lo condannava a morte per fellonia e ingiungeva il sequestro dei beni. Il piano del principe non riuscì perché le due flotte non riuscirono ad incontrarsi. Il principe secondo fonti veneziane a novembre si recò dal sultano; poi trovò riparo in Francia, ad Avignone (Del Mercato, 2019), dove pare si fosse accostato agli Ugonotti (Castaldo, 1769, 140). Si hanno anche documenti di un viaggio fatto nel 1560 a Ginevra dove incontrò Galeazzo Caracciolo che aveva aderito al calvinismo. Morì in Francia, ad Orange, nel 1568, in estrema povertà, senza eredi, dimenticato da tutti (Addante, 2017).
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et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque
[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]