Tiezzi, Benedetto (Benedetto da Foiano)

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Fra Benedetto da Foiano (fine XV secolo - 1531) è stato un frate domenicano che operò nel convento di Santa Maria Novella a Firenze, in momenti discontinui, tra il 1500 e il 1530. Si distinse per il suo impegno religioso e politico che fu però in contrasto con l’ordine mediceo e papale dell’epoca, in quanto forte simpatizzante delle idee professate da Girolamo Savonarola.

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Cenni biografici

Benedetto Tiezzi nacque a Foiano in Val di Chiana verso la fine del quindicesimo secolo. Fin da giovanissimo dimostrò un “ingegno svegliato” (Luigi Neretti, Fra Benedetto da Foiano - Ricerche storiche, p. 7), assieme ad un grande amore per lo studio e una forte attrazione verso il mondo religioso e la vita monastica. Indossò le vesti domenicane nel convento del suo paese, per poi compiere il suo noviziato, come era d’uso, in un altro luogo, ovvero probabilmente ad Arezzo, dove gli venne riconosciuto il grado di “maestro” per le sue doti negli studi teologici e la sua grande acutezza.
Venne in seguito ordinato sacerdote, e la sua fama di predicatore si diffuse nell’intero territorio toscano, affermandosi al punto tale da essere inviato ad operare al convento di Santa Maria Novella di Firenze. Ciò avvenne tra il 1499 e il 1500: si era da poco conclusa quella fase della vita politica fiorentina che era stata dominata dalla fazione guidata dal frate domenicano Girolamo Savonarola, a seguito della scomunica e della successiva condanna a morte per eresia di quest’ultimo, nel 1498. Al governo dei seguaci del frate, si era sostituito quello popolano guidato da Pier Soderini, poi divenuto Gonfaloniere a vita nel 1502. Lo spirito profetico del Savonarola si era conservato nelle menti di molti fiorentini, e conviveva con ideali di libertà nello sforzo di mantenere la città, da un lato, libera dai Medici che tentavano di ripristinare il loro regime, dall’altro, al riparo dalle frequenti invasioni straniere della penisola italiana di quegli anni. Ciò diede vita alla necessità di pensare ad un nuovo modello di esercito per Firenze, che potesse coinvolgere in misura sempre maggiore i sudditi nella difesa dello stato: un esercito fatto di armi proprie. Tutto ciò si concretizzò nelle riforme sostenute e animate da Machiavelli, di cui sono espressione i suoi Scritti d’Ordinanza, legati all’istituzione della milizia del contado al tempo del Soderini.
In questo contesto storico, a Firenze Fra Benedetto iniziò ad avvicinarsi ai cosiddetti “Piagnoni”, quei sostenitori del Savonarola che continuavano a sostenere gli ideali del frate anche dopo la sua morte. Uomo colto, amante delle glorie patrie e della libertà, Fra Benedetto si sentiva vicino allo spirito delle prediche del Savonarola, e si professò apertamente suo ammiratore. Emerge quindi fin dal principio la doppia attitudine di dissidente politico ed eretico di Fra Benedetto, da un lato critico verso l’egemonia politica medicea, e dall’altro verso la Chiesa romana stessa, sostenitrice dei Medici.
Nonostante questa duplice attitudine fosse già emersa abbastanza chiaramente, nei primi anni a Firenze Fra Benedetto non usava fare esplicito riferimento alla politica del tempo nelle sue prediche, che vedevano invece come temi centrali la carità, l’amore, la legge del Vangelo. Egli si distinse per le sue grandi capacità oratorie e per la vivezza della sua oratoria, e perciò venne chiamato a predicare in altre città d’Italia e all’estero. Non ci è possibile, tuttavia, conoscere con esattezza le dinamiche dei viaggi che compì nel primo decennio del XVI secolo. L’unica eccezione riguarda la sua permanenza a Lisbona nel 1512, quando Fra Benedetto fu ospite del prelato fiorentino Antonio di Alessandro Pucci, nunzio papale presso il re del Portogallo, documentata da un passo della Vita di Giovanni da Empoli.
Caduta la Repubblica popolana del Soderini nell’estate del 1512, di fronte alle armate Spagnole che assediarono Prato, e ripristinato il regime dei Medici in città, nel 1513 Fra Benedetto si trovava nuovamente a Firenze, al convento di Santa Maria Novella, dove gli venne conferita la carica di Priore. Il suo ruolo all’interno del convento era ben affermato e sicuramente influente, nonché efficace per il benessere e l’ordine della comunità. Evento importante da ricordare durante il suo anno di priorato fu che Fra Benedetto offrì due ampolle d’argento da messa al nuovo arcivescovo fiorentino Giulio de’ Medici; ciò potrebbe indicare che, all’epoca, non aveva ancora assunto apertamente una posizione antimedicea. Scaduto l’anno del priorato, Fra Benedetto tornò a svolgere la più umile funzione di frate. Fino al 1520, abbiamo notizie di lui come sindaco od operaio del convento, e come rivenditore dei beni dei monaci defunti.
Nel 1519, sotto la guida politica del cardinale Giulio de’ Medici, in seguito papa Clemente VII, le libertà cittadine iniziarono a restringersi, e sorsero dissidi all’interno del gruppo seguaci del Savonarola. Tra i capisaldi del pensiero del frate vi era la necessità di una più stringente austerità spirituale all’interno della Chiesa cattolica, e di una riforma di quest’ultima; Fra Benedetto seguiva questo pensiero, e non poté celare il suo animo savonaroliano in quegli anni, criticando più volte la rilassatezza morale dell’Ordine domenicano, giudicando i frati “tiepidi”.
Fu così che, agli inizi del 1520, le sue posizioni critiche e le sue simpatie savonaroliane provocarono un intervento da parte delle gerarchie domenicane: il 16 giugno del 1520 il generale dell’Ordine, M. Garcia di Loayasa, in visita al convento di Santa Maria Novella, ottenne dai frati della comunità la condanna di Fra Benedetto. Dagli scritti di Frate Nicholaio (vd. l’analisi del libro Ricordanze svolta da Neretti, pp. 24-25), sappiamo che Fra Benedetto fu condannato per certe differenze che ebbe col convento, le quali non ci è dato conoscere, giacché i protagonisti le dovettero tacere. È probabile, tuttavia, che si trattasse di diversità di opinione e di idee, considerando anche la misura disciplinare, di punizione, comminata a Fra Benedetto; la sua condanna fu, insomma, probabilmente legata a ragioni politiche di avversità ai Medici. Ciò ci viene confermato dal fatto che Fra Benedetto venne richiamato a Firenze solamente nel 1527, dai Dieci del ripristinato governo repubblicano, ostile ai Medici, nuovamente estromessi dalla città a seguito dei tumulti causati dal Sacco di Roma da parte degli Imperiali.
Fu infatti durante il gonfalonierato di Francesco Carducci che, ripristinata la repubblica, ebbe fine l’esilio a Venezia di Benedetto, iniziato proprio a seguito della sua condanna. Tornato a Firenze, il frate iniziò un’ardente predicazione antimedicea, contribuendo largamente a diffondere il messaggio savonaroliano tra i popolani e il clero locale fiorentino. Tra il 1527 e il 1530, egli giocò quindi un ruolo fondamentale nella resistenza fiorentina all’aggressione papale e imperiale e ai disegni aperti di restaurazione medicea. Inoltre, assieme a Bartolomeo da Faenza e Bernardo da Castiglione, Fra Benedetto fu, in quegli anni, sostenitore deciso di un piano di riforma politica e spirituale, benché lontano da quegli ideali religiosi che si stavano diffondendo in tutta Europa con la Riforma luterana. Era stimato dal popolo fiorentino e considerato primo tra i frati della città.
Nello stesso periodo, i seguaci del Savonarola iniziarono a intromettersi, anche attraverso mezzi indiretti quale la confessione, nelle faccende della cosa pubblica. In particolare, nel convento di San Marco, predicava Fra Zaccaria, il quale, sulla stessa linea di Fra Benedetto, tendeva più a “mordere il pontefice, che a altro” (Varchi, Storia fiorentina, libro VIII, p. 376). Emersero quindi grandi discordie all’interno del mondo monastico. Vi fu, in particolare, un episodio di dissidenza che vide Fra Benedetto scontrarsi pubblicamente con l’umanista Antonio Brucioli. Quest’ultimo dichiarava apertamente di essere nemico dei frateschi, e professava piuttosto idee riformatrici filo-luterane. Durante un suo pubblico discorso, il Brucioli criticò la tendenza ad offrire beni e ricchezza ai frati, la quale permetteva loro di non lavorare ma, di “trionfare, e poltroneggiare ne’ conventi” (ibid, p. 421). Fra Benedetto, rispose a questa accusa durante una sua predica, non citandolo mai direttamente, ma dichiarando che “i brucioli non erano buoni ad altro, che ad essere arsi (ibid). L’influenza politica di Fra Benedetto all’epoca era tale che il Brucioli fu arrestato dalla Signoria ed esiliato per due anni.
Agostino Ademollo descrive nel suo racconto storico Marietta de’ Ricci alcuni episodi della vita di Fra Benedetto. Fra questi, è interessante quello avvenuto il 15 maggio del 1529 nel duomo di Firenze, la chiesa di Santa Maria del Fiore (pp. 359-360). Si trattava del giorno stabilito per la Rassegna e il Giuramento dei giovani della milizia, durante il quale, all’ora di nona, la Signoria arrivò in Santa Maria del Fiore, già affollatissima, seguita dalle altre Magistrature e dai Sedici nuovi Gonfalonieri di compagnia. Fu celebrata la Messa dello Spirito Santo, al termine della quale Fra Benedetto recitò un discorso in amore della libertà, dell’ordine e dell’unione. Incitò alla concordia e alla fratellanza fra i cittadini, la pace nelle famiglie e il perdono delle ingiurie; si commosse al punto tale da cadere ginocchioni sul pulpito, piangendo a dirotto. Finita la predica, ci fu un tumulto di abbracci, baci e lacrime tra gli astanti, profondamente toccati dalla predica del frate.
L’estate che seguì il giorno per la Rassegna e iI Giuramento viene inizialmente descritta da Ademollo (ibid., pp. 404-405) come umida e fredda, senza possibilità per la città di Firenze di vedere né il sole né la pioggia. Successivamente, vi sopraggiunse una forte siccità e una calura soffocante. Le particolari condizioni meteorologiche permisero una larga diffusione della peste, che andò ad appesantire lo spirito dei cittadini fiorentini, già marchiati dalle pene conseguenti al tumultuoso periodo politico di quegli anni. Nel frattempo che il contagio si propagava, le prediche di Fra Benedetto e di Fra Zaccaria dai pulpiti di S. Maria Novella e del Duomo aumentavano il senso di timore e incertezza generali. In esse i frati invitavano alla penitenza e ai digiuni, e raffiguravano la peste come conseguenza della malignità degli uomini. Interpretando le profezie savonaroliane, essi affermavano che l’epidemia non fosse altro che uno strumento in mano di Dio per punire Firenze dai suoi peccati, al fine di purificare la città e farla risorgere più bella, libera e felice. Tali prediche ebbero grande successo negli animi dei fiorentini.
Un momento particolarmente rilevante della vita del frate cadde nell’inverno del 1529, il 24 novembre, giorno dell’incontro tra l’imperatore Carlo V e il pontefice Clemente VII a Bologna. In quell’occasione Fra Benedetto predicò nella Sala grande del Consiglio maggiore a Firenze. Egli parlò di quando, come, e da chi si sarebbe dovuta liberare la città, menzionando molti luoghi delle Sacre Scritture. Citò testi profetici per dimostrare il trionfo della libertas fiorentina e augurare, quindi, la liberazione di Firenze stessa dalle sventure che incombevano su di essa. Inoltre, avanzò una critica particolarmente dura contro il pontefice. Dal libro XI della Storia fiorentina di Varchi (p. 39-40), sappiamo che Fra Benedetto parlò con tanta eloquenza da attirare un numero molto alto di ascoltatori, i quali passavano dal piangere al rallegrarsi. Alla fine della sua predica egli porse al Gonfaloniere uno stendardo, nel quale vi erano raffigurati, da un lato, Cristo vittorioso accerchiato da soldati distesi in terra, dall’altro, una croce rossa.
L’anno seguente, il 14 luglio del 1530, quando a Firenze arrivò la notizia che erano stati restituiti al re di Francia Francesco I, alleato della città, i suoi figli tenuti prigionieri, e si sperava che quest’ultimo mandasse finalmente gli aiuti militari prima promessi, Fra Benedetto pronunciò una delle sue più belle prediche in lode della libertà. Egli sperava che la pacificazione generale potesse evitare a Firenze una seconda restaurazione medicea. Agostino Ademollo racconta di un altro episodio che vide protagonisti Fra Benedetto e la Chiesa di S. Maria del Fiore, in quelle giornate di massima tensione per la Repubblica di Firenze (Marietta de’ Ricci, pp. 871-872). Il 30 luglio dello stesso anno, mentre la Signoria preparava un piano d’assalto da affidare all’eroico comandante fiorentino Francesco Ferrucci, per vincere l’assedio che i nemici davano alla città, su invito di Fra Benedetto, si fece pubblicamente bandire e notificare che, al fine di pregare il Signore affinché liberasse la città dall’assedio, durante la messa dell’ultima domenica del mese, i Signori e tutti i Magistrati avrebbero dovuto compiere una “solenne Comunione” in Duomo, invitando tutti i cittadini a fare lo stesso. Questo atto di fede collettivo avrebbe dovuto stimolare il popolo a stringersi assieme attorno alla causa della libertà della città, e infondere coraggio durante le ultime e disperate fasi dell’assedio.
Quando il 12 agosto 1530 Firenze infine capitolò di fronte alle truppe spagnole e imperiali, e la Repubblica dovette nuovamente soccombere al ripristinato regime mediceo, Fra Benedetto si ritirò nel convento di San Marco. La Balia di Firenze ordinò, nelle giornate che seguirono, che nessun uomo dai quattordici anni in su, sia che egli fosse cittadino o contadino, potesse uscire con armi indosso dalle due in poi, né varcare le porte della cittadina. Se qualcuno fosse stato colto in flagrante a far ciò, vi sarebbe stata per lui la pena di morte e la confisca di tutti i suoi beni. Fra Benedetto si fidò di alcuni suoi frati, e di un soldato di nome Perugino, per tentare di fuggire dalla città senza essere scoperto, portando con sé i suoi beni. Promise al soldato dei danari in cambio del suo aiuto in questa impresa; quest’ultimo, però, rivelò il piano di fuga ad Alessio Strozzi, che denunziò Fra Benedetto ai soldati guidati da Malatesta Baglioni. Questi lo consegnò, a sua volta, a papa Clemente VII, e Fra Benedetto fu trasferito a Roma, dove venne rinchiuso, per volere del pontefice, in una cella di Castel S. Angelo.
In prigione, il frate visse una situazione di immenso disagio, subendo la fame, il freddo e la mancanza d’igiene tipica delle carceri dell’epoca; provò a riguadagnare la fiducia del papa promettendogli di comporre un’opera nella quale avrebbe confutato tutte le eresie luterane, mediante una rilettura dei luoghi della scrittura divina. Un tentativo di soccorso arrivò anche da parte di Guido de’ Medici, allora, come afferma Benedetto Varchi nel quarto libro della sua Storia fiorentina, "vescovo di Cività", che provò a perorare la sua causa col Pontefice. Purtroppo, non riuscì nella sua impresa: Fra Benedetto morì prima, di fame e di stenti, nella sua cella, l’8 settembre del 1531.

Bibliografia

  • Cesare Vasoli, Benedetto da Foiano, in DBI, vol. 8 (1966).
  • Luigi Neretti, Fra Benedetto da Foiano - Ricerche storiche, Tipografia di Raffaello Ricci, Firenze 1894.
  • Benedetto Varchi, Storia Fiorentina, 3 voll., Le Monnier, Firenze 1857.
  • Agostino Ademollo, Marietta de’ Ricci, ovvero Firenze al tempo dell’assedio, Stampa Granducale, Firenze 1841.

Article written by Irene Bagliolid | Ereticopedia.org © 2024

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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