Narrazione degli avvenimenti del 1860 nel Convento di Santa Maria Occorrevole

a cura di Armando Pepe

Come citare: Narrazione degli avvenimenti del 1860 nel Convento di Santa Maria Occorrevole di Piedimonte d’Alife nello scoppio della Rivoluzione, a cura di Armando Pepe, in "Quaderni eretici. Studi sul dissenso politico, religioso e letterario", 6, 2018 [URL: http://www.ereticopedia.org/rivista#toc25]

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Introduzione

Nel 1910, in occasione del cinquantesimo anniversario della spedizione dei Mille, lo scienziato piedimontese Giovanni Petella1, ufficiale medico della Marina militare e libero docente universitario di Clinica oculistica, diede alle stampe un interessante libro dal titolo La Legione del Matese durante e dopo l’epopea garibaldina2, in cui erano minuziosamente descritte le gesta dei garibaldini provenienti da Piedimonte d’Alife e dai paesi circonvicini. Il narratore, nel corso di un’indagine condotta prevalentemente interrogando i garibaldini del Matese superstiti, palesava un’aperta simpatia per la causa nazionale. Il libro di Giovanni Petella si rivela ancora oggi una fonte storiografica di grande interesse, da cui hanno preso spunto ulteriori studi, specialmente a partire dagli anni Settanta del XX secolo. L’epicentro conoscitivo che aveva destato l’attenzione dell’illustre piedimontese si focalizzava soprattutto sullo svolgersi delle azioni della Legione del Matese dalla sua costituzione allo scioglimento. Era ancora lontano e di là da venire lo studio del brigantaggio postunitario e l’impresa di Garibaldi era esposta in termini quasi parenetici, essendo l’antistoria del Risorgimento un concetto astruso. Nel secondo capitolo del suo volume, in tono entusiastico, Petella descriveva a grandi tratti i patrioti matesini che combatterono per l’unità d’Italia. Primo tra tutti appariva Beniamino Caso, alacre e tenace propugnatore dei valori nazionali, originario di San Gregorio d’Alife. Accanto a Beniamino Caso si raccoglievano altri personaggi locali, ferventi apostoli della unità d’Italia, come l’avvocato Pietro Romagnoli, il medico Pietro Buontempo, Vincenzo Pitò e i tre fratelli Torti, l’avvocato Nicola, l’ingegnere Giacomo e il medico Damiano. Il comando della Legione del Matese, dapprima affidato al maggiore Giuseppe De Blasiis, passò in un secondo tempo a Bonaventura Campagnano. Poiché occorre inquadrare ogni documento nel proprio periodo storico, è necessario assumere queste coordinate affinché sia più agevole comprendere la realtà dell’epoca, che spesso si snoda per complicate trame. Tra poco ci addentreremo nella lettura di un breve manoscritto, che reca in epigrafe un lungo ma avvincente titolo: Narrazione degli avvenimenti del 1860 nel Convento di Santa Maria Occorrevole di Piedimonte d’Alife nello scoppio della Rivoluzione3, recentemente rinvenuto presso l’archivio dell’ordine dei Frati Minori in Napoli, stilato da un legittimista borbonico, conservatore ma non retrivo. I riscontri fattuali sono possibili grazie all’opera di Giovanni Petella. L’importanza di questa pubblicazione risiede nel fatto che, per fare ricerca storiografica, è indispensabile la collazione delle fonti, così da avere più pareri su di un medesimo evento. Ciò premesso, non si vuole indulgere qui a una parastoriografia di tendenza neoborbonica, oggi in voga, ma riportare in modo fededegno un documento autentico, sia pure anonimo. Ricordiamo solo che nel 1860 nel Convento di Santa Maria Occorrevole c’erano i padri Alcantarini, della provincia napoletana, e l’estensore era un religioso di quell’ordine. Vescovo della diocesi d’Alife era monsignor Gennaro Di Giacomo, nominato senatore del Regno il 24 maggio 1863. Si tenga presente che quando l’autore usa il sintagma Truppe Regie, o semplicemente il termine Regi, si riferisce all’esercito borbonico.

Il testo

Fonte: Archivio Storico della provincia del SS. Cuore di Gesù dei Frati Minori di Napoli, Fondo Alcantarino, busta delle fondazioni e di altro spettante ai conventi, cartella 1 “Piedimonte”.

[p. 1] Narrazione degli avvenimenti del 1860 nel Convento di Santa Maria Occorrevole di Piedimonte d’Alife nello scoppio della Rivoluzione.
Si potea credere che questo Convento, attesa la sua situazione sì remota dall’abitato, avesse potuto godere una pace e una tranquillità inalterabili, essendo un Santuario di gran nome, in dove si venera un’immagine, per opera del Signore, miracolosamente ritrovata, e per quella venerazione che si ha per quel Sacro Ritiro, detto Solitudine, visitato da tanti devoti di vicini e lontani paesi, che in processioni numerosissime e con più edificante devozione vi si conduceano attraversando questi monti orribili del Matese. Si potea ivi godersi quella ineffabile pace per le ragioni addotte, ma non fu così. Si videro perturbati quel romitico e religioso silenzio da gente sì trista che voi li direste figli di Bestia, educati in luoghi infernali, che non rispettavano né Dio né qualunque luogo sacro. Ciò premesso veniamo a toccare il racconto in particolare. Oltre a delle tristi notizie che ci giungevano degli avvenimenti strepitosi per le conquiste che facea la Rivoluzione, avendo alla testa quell’uomo fatale e pestifero detto Garibaldi. Eravamo ai principi d’agosto 1860 e i movimenti rivoluzionari già si avvicinavano a noi con tanta rapidità e la Truppa Regia cedea sempre più il terreno ai rivoluzionari, e si discioglieva per i continui tradimenti già compiuti. Sui nostri monti si raccoglievano i garibaldini, formando la banda cosiddetta “del Matese”, aspettando il convenuto segno per indi scendere e impossessarsi di ogni città, paese e terra. E già se ne osservavano i movimenti, ché i Religiosi ne cominciarono a tremare, non sapendo cosa potea accadergli dall’un giorno all’altro, quando in un bel dì verso sera negli ultimi di agosto si udivano anche su nel Convento grida orribili e uno schiamazzare di voci confuse che provenivano dalla città di Piedimonte. La curiosità spinse i Religiosi in un luogo detto “avanti al Campanile”, da dove si vedea la città di Piedimonte e si udivano quelle orribili grida. E che era? Già si piantava il governo provvisorio della Rivoluzione, e si proclamava, con voci e schiamazzo, Garibaldi dittatore. A questa novità si accrebbe il timore de’ Religiosi che, taciturni e meditativi, si ritirarono nel Convento. Quindi sparpagliata per ogni dove quella gente garibaldina, furibonda e feroce e destinata a tormentare i popoli ed a molestare i pacifici cittadini, ecco che cominciarono a salire i piccoli distaccamenti sul nostro Convento, di tutto punto armati e furibondi, girando dappertutto con brama e disprezzo, e molto spesso a un gran numero di essi si dovea apprestare cibo e bevande, con altri ristori; e i timori aumentarono a guisa che si vedeano persone di truce aspetto, senza sapere qual era la loro patria. Il terrore dilagava dappertutto. [p. 2] Oltre a ciò tutti eravamo costernati e palpitavamo all’udire il continuo cannoneggiamento di Capua. Ma ritorniamo a noi. In un bel giorno verso sera si avvicinavano una sessantina e più di quella gente garibaldina, armata di tutto punto, che dalla loro fiera fisionomia ben si conosceva che spiravano da quegli occhiacci odio, strage e vendetta. Tutta questa gente era comandata da un capitano. Giunti che furono avanti al Convento, si chiamò il Superiore. Questi subito si presenta per vedere cosa era e che abbisognava. La prima cosa che si chiese con alterigia e prepotenza fu l’alloggio per il cavallo del capitano e biada, con altro occorrente. Il Superiore rispose che lì non vi era luogo adatto, né biada, ma che nell’Ospizio in Piedimonte vi era quanto si desiderava, tuttavia il capitano per nulla si persuadeva, ed alle scuse e umili proteste del Superiore rispondea come un furibondo, ed era sempre più acceso d’ira. Alle chiare ragioni addotte dal Superiore il capitano rispondea con minacce. Non era finita la questione che ne cominciò un’altra più seria. I garibaldini voleano nientemeno che prendere posizioni sui vari punti del Convento, in caso di qualche assalto dei Regi. Il Superiore disse con tanta sommissione: «Signor Capitano, la prego di salvare il Convento con tutti i Religiosi». Con tanta alterigia il capitano rispose: «Sono io ora il padrone, voi tutti uscirete fuori ed io con i miei armati prenderemo posizione ovunque io voglia. Se mi avveggo che mi siete nemico sarete fucilato». Rimanemmo tutti ammutoliti e tremanti. Comprenderà chi legge in quali ambasce e timori si videro il Superiore con tutti i Religiosi della Comunità. Per mitigare quel cuore spietato e quello di tutti gli uomini che lo seguivano, gli si disse: «Signor Capitano volete un caffè, una colazione?», «Sì» quello rispose. «Tutto ciò dovete apprestare e con prontezza». Pertanto fu dato il caffè, come anche pane, vino e formaggio a quanti vi erano. La Comunità rimase sprovvista di tutto il necessario, perché lì sopra essa riceveva dall’Ospizio di Piedimonte giorno per giorno quel tanto che le era sufficiente e necessario. La notte avanzava e non si sapeva quale risoluzione si sarebbe presa, essendo già passate le due ore [20:00] e tutti quegli armati erano sparsi per il Convento, tanti altri destinati a fare da sentinella e a tenere l’occhio attento verso la montagna, in ogni direzione. Noi Frati eravamo in tanta agitazione e timore, non sapevamo cosa sarebbe accaduto, rivolti con calde preghiere alla Vergine e ai Santi, quand’ecco all’improvviso un corriere espresso da Piedimonte con un plico d’importanza, che tutti richiamava a ritirarsi in città. Fu un vero miracolo della Vergine, che liberò la Comunità da tanti insulti e vessazioni e da tanti possibili accidenti. I garibaldini partirono subito e ci vedemmo liberati da tutta quella gente. [p. 3] Bene. Andammo in Coro a ringraziare la Vergine di sì singolare favore e grazia. Intanto gli avvenimenti sempre più si aggravavano. Re Francesco II era già da tanto uscito da Napoli e rinchiuso nella Fortezza di Capua. Le Truppe Regie avanzavano in direzione di Gaeta e lungo la strada che conduce ad Isernia. Era tutto ciò un’illusione! In un fatto d’arme avvenuto a Roccaromana fra Regi e garibaldini, quest’ultimi furono sconfitti e i Regi, con la vittoria, si aprirono il passaggio del Volturno e si diressero verso Alife e Piedimonte. I Regi abbandonarono pure la posizione di Caiazzo e presero la volta di Piedimonte, dimodoché verso Alife si avanzarono due colonne. L’obiettivo strategico dei Regi era quello di occupare Piedimonte, città che teneano in mano i garibaldini. Perciò i Regi si avvicinarono alla città di Piedimonte e disposero un assedio, ma la banda dei rivoltosi si ostinò a resistere e a formare delle barricate, con altre opere di difesa. Le minacce dei Regi erano imperiose e perentorie, di fuoco e rovina. I garibaldini, per nulla curando le minacce, erano ostinati e duri. Ecco allora che tre signori, il Duca Antonio di Laurenzana, Monsignor Gennaro Di Giacomo e Don Gian Gaspare Egg, lo svizzero, si frapposero come mediatori per salvare la città da sicura rovina. Nulla valevano queste mediazioni di sì alti personaggi, i garibaldini erano ostinati alla più strenua resistenza. I Regi in vari punti nei dintorni della città piantarono l’artiglieria. Alla vista di questo spettacolo sì funesto e spaventevole, la città era tutta costernata, gli abitanti fuggivano per varie direzioni verso i monti per salvarsi la vita, memori di quanto accadde a Caiazzo, ché porzione di quella città andò in fumo e rovina. Un gran numero di persone venne a salvarsi nel nostro Convento di Santa Maria Occorrevole, e cominciò ad occupare le stanze di quel quarto, detto “della Beneficenza”. Il Vescovo, vedendo inutili le persuasioni di pace fra i Regi e i garibaldini, mandò a chiamare il Padre Superiore onde collaborare secolui per salvare le Religiose dei due Monasteri di Piedimonte e Vallata, e confermò che esse doveano salire sopra Santa Maria Occorrevole; per loro si preparò quel luogo detto “l’Infermeria”, al di là della sacrestia e della chiesa. La fuga dei cittadini da Piedimonte era continua, vedendo imminente la strage, perché le minacce dei Regi erano terribili mentre i garibaldini si mostravano sempre più ostinati alla resistenza. La città di Piedimonte era divenuta deserta, essendo gli abitanti tutti fuggiti. Noi sopra Santa Maria Occorrevole ne ricevemmo quasi un migliaio, tutti raccolti e allocati nelle stanze “della Beneficenza”. Era uno spettacolo purtroppo tristo. Tanti piangevano, considerando perdute le cose più care, altri rissavano a cagione delle stanze, litigando [p. 4] per chi prima dovesse occuparle, poiché non c’era nessuna distinzione e nessun riguardo senonché la forza, essendo distrutta ogni legge, e i Religiosi col Superiore spesso doveano accorrere per sedare le discordie. In questo quadro luttuoso vi era la desolazione di tante famiglie povere, le quali nulla aveano da mangiare, perciò il Superiore ordinò un piatto di minestra con pane per più di un centinaio di persone ogni mattina, oltre a quello che si somministrava a tante altre famiglie agiate e nobili. Per questo motivo la nostra Comunità si vide in uno stato di quasi estrema miseria. Elemosine non se ne raccoglievano più e non c’era nemmeno il modo di procurare il puro necessario alla vita. Le notizie di Piedimonte erano sempre tristi e desolanti, quando un bel giorno, verso sera, salì per quei monti sopra Santa Maria Occorrevole una moltitudine di gente, ed anche quei pochi Frati cercatori che erano alla custodia dell’Ospizio. All’incontro con quella gente desolata e convulsa domandammo cosa fosse accaduto. Ci si disse che si erano uditi molti colpi e si era creduto a un attacco. La città di Piedimonte era in procinto di essere assalita dai Regi, e i garibaldini erano ostinati a non cederla. Artiglierie erano piantate a piccola distanza, la cavalleria e la fanteria erano tutte schierate per assalire la città. C’era confusione da una parte e costernazione dall’altra. Urla, pianti, grida spaventose e voci interrotte da singhiozzi di persone che diceano al Padre Guardiano di sentirsi perdute. Si confortavano alla meglio che si potea fra tante tristezze e angustie. Era già un’ora di notte [19:00] e la gente saliva verso il Convento di Santa Maria Occorrevole per salvarsi da una sciagura quasi inevitabile. Fra i tanti ecco presentarsi due preti. Essi, già conosciuti, armati e vestiti alla garibaldina, chiamano il Superiore con un’aria d’alterigia e cercano alloggio in Convento con altri loro colleghi pure preti. Il Superiore si scusò dicendo che, così armati, non potevano essere ricevuti in quanto lui non poteva compromettersi con tutta la Comunità. Uno dei due preti vestiti alla garibaldina rispose: «Mi negate l’alloggio? Me la pagherete!». Allora, per evitare situazioni più spiacevoli, tutti quei preti, con parole pacifiche, furono alloggiati in una stanza a parte nel quarto “della Beneficenza”, dandogli finanche la cena con piena loro soddisfazione; ma ciò era foriero di quanto dovea accadere nella notte. Soddisfatti tutti i bisogni di quella numerosissima gente, poiché c’era chi volea una cosa chi un’altra, i Religiosi andarono a prendere un po’ di riposo, quando nel profondo del sonno, verso mezzanotte, si udirono rumori orribili. E cosa era? La banda garibaldina, obbligata dalle severe minacce dei Regi e dalle istanze dei Laurenzana e di Monsignor Di Giacomo, era uscita finalmente da Piedimonte.

[p. 5] Dell’uscita dei garibaldini da Piedimonte e dell’entrata dei Regi nella città e ciò che avvenne alla Comunità di Santa Maria Occorrevole.
I Regi, che in due colonne si erano avanzati verso Alife e Piedimonte, superata l’ostinazione garibaldina, entrarono in Piedimonte; i rivoltosi ne uscirono furibondi e adirati e, dopo vari giri, presero la via dei monti, propriamente verso Santa Maria Occorrevole, ove fecero la loro fermata. Tutti i Religiosi riposavano tranquillamente, quando ecco che verso mezzanotte si udirono orribili grida e rumorosi fracassi. Che è, che non è? Era la banda garibaldina che, uscita da Piedimonte e salita sopra Santa Maria Occorrevole, trovò chiuso, perché di notte, il cancello che mena all’atrio del Convento e alla chiesa. Con un’accetta e altri strumenti devastatori i garibaldini scassinarono il detto cancello e lo fecero a pezzi. A tali rumori fracassosi accorsero i secolari inservienti che diedero ingresso a tutta quella gente armata. Aperta finanche la portineria si vide il Convento pieno di armati e si può comprendere il terrore da cui furono presi i Religiosi, che si accrebbe vieppiù perché, di notte, non sapendo cosa stava per accadere, i primi ad entrare furono gli ufficiali, i quali si presentarono dal Padre Superiore cercando stanze per riposare. Si aprirono tutte le stanze disponibili, ma non erano sufficienti; i Religiosi furono costretti ad uscire dalle loro celle, e nemmeno si potea soddisfare tutti. Insomma il refettorio e la cucina erano pieni di questi garibaldini; i dormitori di sopra e di basso non più poteano contenerne, essendo il chiostro e l’atrio del Convento tutti occupati. Si cercavano sempre più stanze da riposo e, oltre a ciò, tanti ufficiali cercavano a quell’ora il caffè e subito si diede l’ordine di prepararlo. Il caffè si apprestò per una cinquantina di persone, fra i quali preti e monaci. Altri volevano vino, ma il vino non c’era per le circostanze critiche di quei tempi. Vi era il solo vino per le Messe e a tutta forza lo vollero. I Religiosi, senza aver luogo a riposare, si doveano prestare al servizio di quella gente. A tutto ciò si deve aggiungere che si temea un qualche assalto da parte dei Regi, per cui si proibì severamente di mostrare lumi dalla parte di fuori. Intanto si passò tutta la notte in veglia e senza riposo, ma grazie alla Vergine Santissima, sul punto di far giorno, cominciò la partenza di tutti quei garibaldini che si avviarono verso i monti e propriamente verso Cusano e Cerreto, per indi andare a Maddaloni e a Capua, ove era il teatro della guerra. Intanto la mattina seguente si seppe che i Regi durante la sera erano entrati nella città di Piedimonte, occupandola. Però, man mano in tutti i paesi circonvicini e in questa città si ebbe notizia di quella vergognosa vittoria , così devo dire, riportata dai garibaldini sui Regi che, cenciosi, cominciarono le loro scorrerie anche nei monti del Matese. [p. 6] Sarebbe meglio non parlare di quei vigliacchi e traditori ma la storia non può tacere. Essi si distribuirono in vari punti. Anche noi nel nostro Convento avemmo un distaccamento di Regi, dopo la partenza dei garibaldini, ai quali pure si somministrava quanto potea essere loro necessario. Intanto la povera Comunità era sempre tra angustie e agitazioni. Anche nell’Ospizio si ebbe l’alloggio della cavalleria per una quindicina di giorni. La gente che si era ricoverata sopra Santa Maria Occorrevole, rassicurata dall’entrata dei Regi in città, si ritirò nelle proprie case a riprendere il corso della vita. Noi sopra Santa Maria Occorrevole spesso avevamo visite di soldati e di ufficiali Regi e non mancava di dovergli apprestare da mangiare. E chi pativa detrimento? Era la nostra Comunità. Quindi cominciò un arruolamento di volontari e partirono numerose bande onde unirsi ai Regi per opporsi all’esercito Piemontese, che si dicea discendesse per gli Abruzzi. Erano rimedi palliativi che non impedivano la morte agonizzante del Regno delle Due Sicilie. L’esercito dei Regi si vedea frazionato e sparpagliato senza nulla operare di positivo, ché anzi rimaneva isolato nella Fortezza di Capua e aveva abbandonato Caiazzo, punto d’importanza, ed altre località a difesa di quella piazza, e solo cedea terreno e si restringea ai confini. Si passarono in questo stato di cose in Piedimonte una quindicina di giorni con i Regi, senza sapere qual piega prendessero le cose, quando un bel giorno ci fu un movimento e una costernazione fra la truppa, che era acquartierata in città. E che era? Sul Macerone era succeduto un serio combattimento fra la truppa Piemontese, forte di dodici o quindicimila uomini, ben trincerati e fortificati in quel punto grazie a una batteria di cannoni di grosso calibro, con una frazione di Truppe Regie e alcune centinaia di volontari e gendarmi che, in tutto, erano poco più di tremila. In quell’ora fatale il nerbo dell’esercito Borbonico dormicchiava altrove, dando tutto l’agio all’esercito nemico di fortificarsi su quel punto cotanto vantaggioso. Che vituperio e vergogna dell’Uffizialità Napolitana, traditrice di Dio, della propria coscienza e della Religione, che vendea la Patria a tanti cenciosi. L’è questa una pagina troppo dolorosa e una macchia di tanto vituperio! A queste notizie, le Truppe Regie, raccolte e riunite, si misero in gran movimento, quindi partirono da Piedimonte per la direzione di Venafro, sotto colore di opporsi all’esercito Piemontese, ma col proposito veramente di ritirarsi di là del Garigliano e lasciare libero il passaggio all’esercito nemico che, senza resistenza alcuna, avrebbe potuto occupare la Fortezza di Capua, come difatti avvenne. Così, con falsi pretesti, si fece uscire da Capua la guarnigione che, deposte le armi, si sciolse, e per i Borboni finì anche Capua. I capi dell’esercito Napoletano vollero far spargere inutilmente sul terreno il sangue di tanti soldati che perdevano la vita, poiché [p. 7] i Piemontesi stringevano l’esercito dei Borbone tra due fuochi, quello di mare e quello di terra. Un doppio tradimento, ordito con consumata malizia. Sarebbe stato meglio che i Regi avessero deposto le armi sin dal principio, ma non è mio proposito di parlare di queste peripezie. Ritorniamo a Piedimonte. Partiti i Regi si vide un profondo e sepolcrale silenzio, senza sapere a chi si appartenesse la città, senza leggi, senza governo, senza autorità, che si cambiavano alla giornata. Avendo combattuto i Regi sul Garigliano, il residuo delle truppe si ritirò verso lo Stato Romano e lì deposero le armi. La Fortezza di Gaeta restava isolata e non poteva durare a lungo. I Signori di Laurenzana partirono in fretta da Piedimonte, il Duca Antonio si ritirò in Portici e il Conte Raffaele prese la volta di Gaeta, per indi andarsene a Roma. Ecco che cominciò un nuovo ordine di cose. Le truppe Piemontesi presero possesso di Piedimonte e cominciarono i loro giri per ogni dove. Quindi si formò il Brigantaggio, che fu un flagello dell’umanità e una piaga insanabile della società. Per opporsi a sì devastante flagello si improvvisarono le squadriglie di guardie mobili, che faceano le perlustrazioni sui monti e in tanti luoghi, ove sentivasi notizie di detto Brigantaggio. La nostra Comunità di Santa Maria Occorrevole andò soggetta a nuove e più tristi fasi; a tutte le ore ci vedevamo circondati da queste guardie mobili, le quali, nel salire ai monti o nello scenderne, facevano la loro fermata al Convento per avere un ristoro, sia da mangiare che da bere, così anche la truppa che tante volte era numerosissima. Insomma stavamo noi Religiosi in continui palpiti ed eravamo timorosi sì per parte dei Briganti che per parte della truppa e delle guardie mobili, ma i briganti mai si presero l’ardire di venire nel nostro Convento. Però vi era una perturbazione generale per cagione dei briganti, che ne venne poi l’assedio.

Assedio e ordine di calare i Religiosi dal Convento di Santa Maria Occorrevole fino alla prigionia del Padre Guardiano.
Il Brigantaggio si era oltremodo ingigantito dappertutto in modo che in ogni paese e città, in ogni villaggio e terra si temea sempre un’invasione di questa gente disperata, che incuteva timore a tutti, tanto che i cittadini furono costretti ad armarsi per opporsi a quel flagello devastatore. I monti del Matese erano infestati da bande di briganti, nessuna via era sicura, timori si palesavano dappertutto. Fra tante precauzioni si pensò di porre l’assedio alla città di Piedimonte con la proibizione la più severa di recarsi in giro armati, onde impedire a tanti manutengoli di procurare cose e cibarie ai briganti e prendere questi ultimi così per fame. L’è però una verità incontrastabile, che la Comunità di Santa Maria Occorrevole mai e poi mai aveva somministrato cosa alcuna ai briganti, né questi davano molestia alcuna ai Religiosi, anzi rispettavano il Santuario e le persone devote che vi si recavano a visitare la Vergine. [p. 8] Ciò non pertanto il Maggiore della piazza emanò un ordine pressante, che tutti i Religiosi di Santa Maria Occorrevole dovessero scendere durante l’assedio e dimorare in città. Siccome l’Ospizio non era sufficiente a ricevere tutti, Monsignor Di Giacomo destinò anche il Seminario diocesano per il ricovero dei Religiosi. Si era già fissato il giorno della loro calata e l’ordine era fulminante, sotto severissime pene. I Religiosi già si disponeano ad eseguire questa intimazione, ma avvenne allora che il Padre Guardiano si portò dal Vescovo Monsignor Di Giacomo e lo impegnò con calde preghiere ad interporre la sua autorità, onde non si abbandonassero né il Convento né la Solitudine. Il Maggiore era partito e chi facea le sue veci non potea disattenderne gli ordini. Le visite del Padre Guardiano presso Monsignore erano continue e premurose. Monsignore Di Giacomo, quantunque non si mostrasse né affermativo né negativo, si mise in attività e i primi passi furono quelli di ottenere alcuni giorni di dilazione onde evacuare il Seminario e dar luogo ai Religiosi. Il Vescovo esaminò i Seminaristi in tre giorni e li mandò via tutti alle loro case, e subito calarono i monaci, che erano tutti pronti e disposti ad ubbidire agli ordini dell’autorità. Intanto, col temporeggiare, venne il Maggiore della piazza e Monsignore ne ottenne la sospensione dell’ordine emanato. Vi fu un’allegrezza generale poiché il popolo volea che i Religiosi stessero alla custodia del Santuario. La persecuzione però che alcuni pochi faceano alla Comunità non cessava. L’influenza di questi pochi era forte e tutto poteano ottenere a danno della Comunità, ma il Padre Guardiano avea un valido appoggio nel Vescovo, che avea spiegata una protezione singolare. Per cui la nostra Comunità era assai guardinga con i briganti e disposta sempre a negare loro qualunque sussidio per evitare qualsiasi compromissione. Si poteva inoltre ricevere un aggravio da quelle genti disperate, come fu una volta, che essendo loro stata negata una colazione, minacciarono d’incendiare il Convento con tutta la Comunità e il Padre Guardiano dové fuggire. Tuttavia non cessavano le persecuzioni di quei pochi zelanti che inventavano calunnie a carico della nostra Comunità, verso cui si spedivano spesso truppe numerose di soldati, col dire che avevamo briganti nascosti. Era tutto falso, non essendo mai penetrati nel Convento i briganti, ma sì la Polizia che la truppa di continuo rovistavano tutte le stanze, ma anche nei luoghi più reconditi del Convento mai poterono trovare una minima cosa per poter accusarci di relazione con i briganti. [p. 9] Un Religioso disse a uno di quegli zelanti: «Non sappiamo di chi dobbiamo reputarci vittime, se di voi o dei briganti». Però, nonostante il Convento fosse di tanto soccorso alla truppa e alle guardie mobili che là ricevevano continui ristori di cibo e bevande con tanta cordialità e profusione, ancorché non si fosse trovato nulla a carico della Comunità, gli zelanti inventarono una calunnia infernale a carico del Padre Guardiano, che fu arrestato.

Prigionia del Padre Guardiano di Santa Maria Occorrevole.
Pria di tutto dovete conoscere che nel primo giorno dell’anno era solito fra gli Alcantarini celebrare una funzione devota, cosiddetta dei Santi Avvocati, cioè si estraevano a sorte delle cartelline, in cui erano prescritte alcune pratiche di pietà e vi erano anche annotati i nomi di due Santi, che si aveano per avvocati in quell’anno. Questa funzione si facea dopo avere recitato il Vespero in Coro. Si adunava la Comunità in Coro e uno dei Religiosi, vestito con camicia, stola e piviale, portava in processione una statuetta del Bambino Gesù. Era estratta a sorte una cartellina per ogni Religioso e anche per persone secolari dell’uno e dell’altro sesso, quindi si faceva una devota processione per il chiostro e per la chiesa, cantando un inno al Bambino Gesù. All’ultimo il Religioso si fermava davanti all’altare maggiore, dicendo alcuni versi e le orazioni corrispondenti, e terminava così questa sacra funzione. Per di più, nell’ultimo giorno dell’anno, nell’ora di Compieta, si esponea il Santissimo solennemente, si cantava la Compieta, quindi le litanie, si tenea un discorso a proposito, infine si celebrava il Te Deum, solennemente, in ringraziamento a Dio per le grazie ricevute, e implorando dalla Divina Clemenza nuove grazie e nuovi favori per l’anno che entrava; la Benedizione conchiudea il tutto. Quanto esposto si dovea eseguire scrupolosamente, essendo il tutto prescritto dalle leggi. Eseguito tutto ciò secondo il solito, si creò a bella posta un gravissimo delitto a carico del Padre Guardiano, imputato di mille calunnie. Gli zelanti della Rivoluzione diceano che il Superiore avea fatto cantare il Te Deum e, per di più, fatta una festa per Francesco II. Un’accusa che non era dato neanche immaginare. [p. 10] Qui bisogna notare la voluta creazione dell’incidente. Vi furono alcuni mandati volutamente ad assistere alla funzione del primo giorno dell’anno con ordini segreti, come dipoi si disse, i quali in numero di sei o sette vennero anche armati, e pria della funzione spararono alcuni colpi di schioppo ad una certa distanza dal Convento, poi assisterono alla sacra funzione quieti e tranquilli, dopo se ne partirono; e nello scendere − come ci fu riferito − ad una lontananza notevole dal Convento, e propriamente alla prima cappella dirimpetto a Castello d’Alife, cominciarono ad alzare la voce dicendo: «Viva Francesco II». Altri da Castello rispondeano, ma con voci contrarie. Nessuno però dei Religiosi del Convento ascoltò simili voci, né poteano ascoltarle per la troppa lontananza, e poi erano essi rinchiusi nelle proprie celle. Ecco denunce, ricorsi e processi a carico del Padre Guardiano. I capi della Rivoluzione misero sossopra la città di Piedimonte, volevano vendetta e vedere in catene il Padre Guardiano di Santa Maria Occorrevole, ma, di grazia, qual era il suo delitto? Gli si imputava di aver fatto cantare il Te Deum in onore di Francesco II. Si erano fatte, per i motivi esposti di sopra, incriminazioni precise presso il sottoprefetto e il giudice. Il Padre Guardiano nulla sapea di tali imputazioni. Intanto nelle sedute che si teneano a tal uopo vi erano disparità di pareri e tanti non voleano questo scandalo in Piedimonte a carico del Padre Guardiano, ritenendo i motivi addotti del tutto falsi, ma prevalse il partito rivoluzionario, che era predominante. Si intimò al sottoprefetto e al giudice di emettere il mandato di arresto per il Padre Guardiano, s’istituì un processo criminale. Le autorità erano assai riluttanti e fecero di tutto per liberare il Padre Guardiano, avendo ben riconosciuto l’odio che quegli zelanti nutrivano verso lui. Tutta la nobiltà e il popolo si erano adirati per questo attentato contro il Padre Guardiano, ma il partito rivoluzionario volle a qualunque costo che fosse eseguita la carcerazione, senza aspettare le ragioni contrarie. Si cacciò fuori dunque l’ordine di carcerazione, che fu consegnato al delegato di Polizia. Era il 5 gennaio 1861, giorno di sabato, e si fecero adunare a poco a poco i garibaldini presso il Convento, sopra il giardino che dà sui monti per non dare sospetto, ma la voce già si era sparsa per Piedimonte e anche per i paesi circonvicini e si sussurrava dappertutto che il Padre Guardiano sin dalla sera antecedente fosse stato avvertito dell’ordine di carcerazione e che [p. 11] gli avessero raccomandato di fuggire o nascondersi. Però il Padre Guardiano, calmo e sereno, si era rassegnato e disposto a subire qualunque insulto o sopruso. Non volle allontanarsi dalla Comunità, ché da una parte stimava la fuga una viltà, dall’altra si sarebbe dato per reo di quelle imputazioni. Bisogna rendere di pubblica ragione l’odio infernale e la voglia di vendetta dei rivoluzionari e fin dove arrivò la sfrontatezza di certi uomini del secolo. Il tempo era rigidissimo e i monti erano tutti coperti di neve. All’improvviso si rasserenò il cielo e si vide splendere e brillare il sole, assai lucido e bello. Intanto la Comunità alle dieci andò al Coro per l’Ufficio e alle undici, a Messa finita, andò al refettorio. Il Padre Guardiano rimase da solo in una stanza, disponendosi a preparare nuove cartelline di devozione per farle dispensare ai fedeli. All’undici e mezzo antimeridiane si udirono alcuni squilli di tromba dalla parte del Campanile ed erano i garibaldini che se ne andavano alla cattura del Padre Guardiano. Si avvicinarono al Convento e piantarono sentinelle dappertutto. Molti si disposero armati nei dintorni del Convento, tanti altri entrarono nel chiostro. La Comunità stava in refettorio. Il Padre Guardiano, vedendo che nessuno dei garibaldini si avvicinava, uscì dalla stanza e si presentò a tutte quelle persone armate e disse: «Signori, cosa volete? Cosa vi ha qui condotti?». Nessuno rispondeva alle replicate istanze del Padre Guardiano. Finalmente risposero che li aveva condotti quassù il delegato di Polizia. Allora il Padre Guardiano disse: «Signor delegato, cosa vi occorre?». Il delegato replicò adirato: «Che mi occorre?», e disse poi quanto avesse sofferto per salire fin qui sopra e, rivolto al Padre Guardiano, esclamò: «Voi ci avete colpa!». Il Padre Guardiano rispose «Io? Si può sapere di che si tratta?». Il delegato, volendo tagliar corto, profferì: «Non siete stato voi che avete fatto cantare il Te Deum per Francesco II?». Il Padre Guardiano costernato disse: «L’è questa, signor delegato, una pura calunnia e una fraudolenta invenzione. Da noi si è fatta una sacra funzione nel primo giorno dell’anno, prescritta dalle nostre leggi, e le pubbliche Autorità ne sono bene informate». Il delegato di Polizia dovea eseguire l’ordine ricevuto e arrestò il Padre Guardiano, poi volle rovistare tutte le carte, le lettere e altro del Padre Guardiano ma nulla trovò che potesse importargli perché nulla vi era, quindi andò in tutte le stanze dei Religiosi e, non contento di ciò, andò rovistando dappertutto, anche nelle sepolture. [p. 12] Credendo i garibaldini, erroneamente, di aver trovato un deposito di armi, noi si disse loro: «Le nostre armi sono i breviari per l’Ufficio, i messali per le Messe e le corone per il Rosario». Nulla vi dico dei maltrattamenti e irriverenze al luogo santo, ché se fossero stati i Barbari avrebbero avuto più rispetto e riguardo. Passiamo anche sotto silenzio la riprovevole condotta dei tanti affamati, ché era l’ora di mezzogiorno e tutti vollero mangiare e bere, e divorarono quanto vi era di provvista per la Comunità. Alla fine il delegato disse al Padre Guardiano di dover scendere con lui in città. Gli disse inoltre di stare tranquillo perché subito sarebbe ritornato al Monastero. Il Padre Guardiano chiese la cortesia che fosse allontanata dal suo cospetto tutta quella gente armata, il delegato annuì, ma era una menzogna. Non appena uscita dal Convento, e nello scendere per la via del Campanile, tutta quella gente armata subito intonò l’inno a Garibaldi e non si può esprimere senza orrore quali orrende bestemmie uscissero da quelle bocche infernali, specialmente contro il Pontefice. Erano tutti giulivi ed allegri, tutti superbi ed alteri, credendo di aver fatto una gran preda, e si scendea cantando. Il Padre Guardiano camminava al fianco del delegato, e la gente armata era disposta una porzione avanti e un’altra porzione indietro. L’ufficiale garibaldino Gennaro Gismondi, tutto altero, con la spada sguainata, facea la prima figura. Ma si pensi! Si entrò poi in Piedimonte al suono di tromba, la prima fermata fu nel Corpo di Guardia. In città vi erano un lutto inesprimibile, un silenzio sepolcrale e un pianto dirotto, indistintamente, di ogni persona. Dopo breve dimora al Corpo di Guardia, si andò al Carcere dei Celestini, in una di quelle camere della parte superiore. In altre stanze vicine vi abitavano Uffiziali garibaldini e vi era facile comunicazione. Il Padre Guardiano rinvenne una bella compagnia. Vi erano ritenuti pure il Canonico Guglietti e il Parroco di Sepicciano, Don Achille Fragola, che fecero tanta festa all’arrivo del Padre Guardiano. Il giudice fu così benigno che diede facoltà a tutti di poter visitare i tre detenuti. Andarono a visitarli i più nobili di Piedimonte e Vallata e tutto il clero, indistintamente. Bisogna notare che quantunque il Canonico e il Parroco vi fossero detenuti da molto tempo, ciononostante il processo al Padre Guardiano si fece subito e con molta prestezza, perché vi erano le pressioni di tutta la nobiltà di Piedimonte e Vallata, che rimproveravano agli zelanti della Rivoluzione quel sacrilego attentato contro il Padre Guardiano, e anche il popolo fremea e ne era al sommo irritato. [p. 13] Il giudice, con tutti di sua corte, si attivò a formare subito il processo, che fu severo e minuzioso, esaminando come testimoni quelli che assisterono alla sacra funzione. Ci fu però chi volea procurare falsi testimoni e farli deporre contro il Padre Guardiano, ma una giovane si contentò di perdere la fatica in fabbrica per non essere spergiura. Compiuto il processo, si inviarono le carte in Santa Maria Capua Vetere e subito venne l’ordine della scarcerazione del Padre Guardiano. Il giudice volea sollecitare anche lo svolgimento della causa del Canonico e del Parroco, ma ne fu impedito dalla parte nemica, e il solo Padre Guardiano uscì libero in capo a otto giorni.

Soppressione del Convento di Santa Maria Occorrevole.
Dopo il Sessanta, anno della Rivoluzione, vari tentativi si erano fatti per sopprimere anticipatamente la Comunità di Santa Maria Occorrevole. I vecchi e antichi nemici di mal genio soffrivano i Religiosi di quel Santuario; già sotto l’antico Napoleone furono venduti tutti i beni di Santa Maria Occorrevole, lasciando tra angustie e strettezze la sopraddetta Comunità. Furono usurpate, da chi comprò, anche altre attinenze, che non spettavano per nessun titolo, neanche per quello della prepotenza. Le esigenze degli usurpatori erano divenute intollerabili e i Religiosi furono costretti a far valere le proprie ragioni presso il tribunale per rivendicare i diritti. Ciò irritò la parte nemica, che maturò l’odio e la vendetta. Pure quella mano potente che ci avea difeso contro le vendette e le insidie dei nemici sacrificò la Comunità di Santa Maria Occorrevole. Dovete sapere che il Vescovo Monsignor Di Giacomo avea difeso la Comunità in tempi calamitosi e l’avea difesa a spada tratta; ma un incidente gli fece cambiare volontà e sentimento. La causa fu che agli ultimi chierici, dopo essere stati chi cinque e chi dieci anni nel chiostro con l’abito religioso, dispiacea andarsene a casa e colà restare per sempre. Si era fatta gran premura per ordinarli dopo aver preso tanti impegni presso il Padre Provinciale. Finalmente, essendo usciti d’età e non più obbligati alla leva, il Provinciale scrisse a Roma e ottenne pieni permessi [p. 14] a farli ordinare da qualunque Vescovo. L’affare fu trattato con cautela e segretezza, dato che nemmeno la Comunità conoscea questi maneggi, neanche il Superiore, Padre Basilio. Quindi i chierici furono ordinati dal Vescovo d’Aversa, e ciò all’insaputa del Vescovo di Alife. Ci fu in Napoli chi avanzò ricorso formale a carico del Padre Provinciale e il Vescovo Di Giacomo si irritò sino alla furia e giurò «lo sterminio» della Comunità e una pronta soppressione, perché dicea che i chierici ordinati apparteneano alla sua giurisdizione. Tutto ciò accadea nei mesi di luglio ed agosto 1861. All’ottobre di quell’anno fu preparato in Torino, ove era la capitale del Regno d’Italia, il decreto di soppressione della Comunità di Santa Maria Occorrevole, cui si diede subito esecuzione. Dopo ciò si cominciò a vociferare che i monaci di Santa Maria Occorrevole di lì a poco se ne sarebbero andati. Noi Religiosi le credevamo voci vane, siccome si dicea lo stesso d’ogni altra Comunità, ma l’ipotesi di soppressione prendea una certa consistenza, così cominciammo a persuaderci dell’ineluttabile. La Vergine, che si venera nella Solitudine, ci diede un segno assai tristo e terribile che nessuno ne ricordava di simile. Gli fu che si staccò dalla cima della montagna che sovrasta la Solitudine un macigno di sì smisurata grandezza che, menandosi per entro al bosco, spezzò tanti alberi di gran dimensione, e urtando altri macigni, con tutta violenza, li sradicava facendoli precipitare al basso. Si videro precipitare altri macigni in diverse direzioni e cadere sradicati alberi sopra alberi. Finalmente il grosso macigno andò a fermarsi nella bassa valle, dopo aver lasciato dietro di sé immense rovine. Il rumore orribile si udì dal paese di Castello e anche da Piedimonte e Vallata. I Religiosi, specialmente i vecchi, diceano che questo era un pessimo segno, un fatale augurio. E lo fu veramente; infatti, dopo alcuni giorni si seppe che dovea giungere il decreto di soppressione e la cacciata dei Religiosi dal Convento. Noi nel frattempo avevamo perduto l’Ospizio in Alvignano; e pertanto, per ricuperare l’Ospizio, si mandò un Religioso in Caserta con lettera di raccomandazione anche da parte di Monsignor Di Giacomo. Ma quel ricevitore rispose così: «Padre mio, a che serve interessarvi dell’Ospizio se avete perduto il Convento? Ecco il decreto di soppressione, domani sarà spedito in Piedimonte». Difatti, il 6 dicembre giunse il decreto, il 7, vigilia della Concezione, ci fu intimato dal Sindaco di abbandonare il Convento. Noi sopra Santa Maria Occorrevole avevamo avuta una guarnigione di quei militi, detti guardie mobili, in numero da 20 a 30, senza conoscerne il perché. Si dicea per opporsi ai briganti, ma il vero scopo fu per osservare i nostri movimenti. [p. 15] Intimato il decreto di soppressione la forza fu aumentata e la vigilanza si fece più severa. Il Sindaco Pietro Buontempo, il quale aveva largheggiato tanto in parole col dire «Partite quieti e con vostro comodo», si comportò da vero tiranno. Non solo lui ma tanti altri si contraddistinsero nel darci vessazioni in tutti i modi che poteano. Intimata la partenza, venne concesso ad ogni Religioso di portare seco quanto avea nella propria stanza. Ciononostante ognuno allora comandava e la faceva da Superiore. La guarnigione, sotto al quarto “della Beneficenza”, rovistava, nel passaggio, quanto avessero appresso i Religiosi. Si gettavano a terra tanti oggetti, e per raccoglierli Dio sa quanta pazienza occorresse. Si trovavano impedimenti a far passare le cose dei Religiosi, si proibì financo di far passare una camicia per potersi cambiare. Insultati e vilipesi nella propria casa da vili cenciosi! Un Religioso si portò da Monsignor Di Giacomo e fece seco lui severe lagnanze, e con tutta l’asprezza e dolore gli disse: «Monsignore, in mezzo a quale gente siamo capitati. Sono questi cannibali venuti dal Settentrione? Tutti i più cenciosi si sono arrogata l’autorità di comandarci e imporci leggi. Se dobbiamo partire spogliati di tutto siamo pronti ma diremo di essere stati spogliati in Piedimonte». Insomma ci volle un ordine del sottoprefetto per dare libero passaggio ad ogni Religioso, e pure eravamo soggetti ad una severa rivista. Il tempo era rigido e nevoso; per questi motivi di gran freddo si era un po’ rallentata la partenza, e poco ci volle che gli altri pochi Religiosi non ancora partiti fossero prelevati dai Carabinieri. L’intera città si era commossa fino alle lacrime e tutti non volevano che i Religiosi partissero. Moltissimi cittadini fecero una sottoscrizione e spedirono in Torino due lettere firmate da centinaia di persone facendo conoscere che il voto di tutto il popolo volea l’esistenza della Comunità religiosa sopra al Santuario di Santa Maria Occorrevole. Anche il Municipio di Piedimonte era a favore dei Religiosi ad eccezione del Sindaco Buontempo e per poco non ne nacque una rissa. Si videro impegnati per questa nobile causa i più alti personaggi, ma fu fiato presto dissipato dal vento rivoluzionario. [p. 16] Partirono dunque tutti i Religiosi per le loro destinazioni, secondo la Divina Volontà ed eseguendo i giudizi dell’Altissimo, che tutto regola e governa. E finì la Comunità dei Religiosi Alcantarini sopra Santa Maria Occorrevole dopo 190 anni dalla loro istallazione, lasciando la città tutta e i paesi circonvicini tra lutto e pianto. Anche i paesi lontani, che spesso venivano per adorare la Vergine su quel Sacro Ritiro, furono addolorati e commossi. Soltanto due Religiosi restarono alla custodia di quel Santuario.

Per ulteriori approfondimenti

Note

Article written by Armando Pepe | Ereticopedia.org © 2018

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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