Ventura da Breme

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Ventura e Bellomo da Breme e le loro figlie. Una storia di conversioni, affari e rovina a Breme, in Lomellina, dal 1486 al 1491
Ezio Barbieri, Maria Carla Maggi

La vicenda

L’ebrea Ventura da Breme, nell’estate del 1486, attraverso il suo procuratore Angelo ebreo, del fu Giacobbe, abitante a Breme, invia una supplica al Duca di Milano per chiedere giustizia riguardo un fatto occorsole a giugno di quell’anno: approfittando della sua assenza, Galeazzo de Trovatis, podestà della terra di Breme, con alcuni uomini si è introdotto nella sua casa per portare via le due figlie, Paola e Caterina (così vengono indicate: non conosciamo i loro nomi ebraici), col pretesto che volevano farsi cristiane e si è anche impadronito di gioielli e altri beni per un valore di mille fiorini. Il 24 luglio il Duca si rivolge a un funzionario di cui è indicato soltanto il nome, Biagio, affinché indaghi sull’accaduto e gli faccia pervenire testimonianze e indizi dall’avvocato fiscale, sigillati con il suo proprio sigillo. Ecco i fatti iniziali di una vicenda giudiziaria di cui si mantiene la memoria nei fascicoli di alcuni notai che sono conservati nel Notarile dell’Archivio di Stato di Pavia.
Copia della lettera del Duca a Biagio con allegata trascrizione della supplica di Ventura si trova tra le carte del notaio Giovanni Pietro Serra. Fra le carte del medesimo notaio è conservata la testimonianza di Guglielmo de Balzanis, di Breme, resa il 26 luglio, a favore di Galeazzo de Trovatis contro Ventura, davanti al decretorum doctor Bartolomeo de Aliprandis, prevosto della Chiesa di Breme e delegato dal consigliere ducale Giovanni Pietro Visconti, signore di Breme. Guglielmo, a cui viene tradotta in volgare la supplica di Ventura perché ne comprenda il significato, riferisce di una conversazione avuta a Breme con il sarto Girardo de Garganis, il quale, a un certo punto del discorso, aveva cominciato a parlare delle figlie di Ventura e di come egli fosse pronto a pagare venti soldi di imperiali per il catechismo delle due giovani donne, se avessero voluto battezzarsi. Il testimone, sollecitato con domande, dice di non sapere se Girardo aveva espresso quelle parole spontaneamente oppure su richiesta di Galeazzo o di altra persona. Ugualmente dice di non sapere se Galeazzo ha sottratto dei beni a Ventura.
Al tramonto dello stesso 26 luglio 1486 a Pavia il notaio Bernardino Sannazzaro redige due documenti : nel primo Giovanni de Aquarolo, procuratore di Galeazzo de Trovatis, davanti a Bartolomeo de Aliprandis, commissario delegato ducale, sostiene la nullità di alcuni capitula presentati contro Galeazzo da Angelo ebreo a nome di Ventura ebrea; nel secondo, redatto nella canonica della Cattedrale, sempre alla presenza di Bartolomeo de Aliprandis, indicato anche come canonico della Cattedrale, Giovanni de Aquarolo, in qualità di procuratore di Galeazzo de Trovatis, respinge tutte le accuse mosse contro il suo assistito da Angelo ebreo a nome di Ventura ebrea. Non soltanto la donna muove accuse infondate sia rispetto al rapimento delle figlie Paola e Caterina sia riguardo la sottrazione di beni dalla sua casa, ma le viene pure contestata la possibilità di trattare affari del marito.
Tra le carte di Bernardino Sannazzaro compare anche un documento del 29 luglio 1486, redatto al tramonto nella canonica della Cattedrale di Pavia alla presenza di Bartolomeo de Aliprandis, nel quale si dichiara che Galeazzo de Trovatis con uno scritto contesta la veridicità delle parole di Ventura. Si afferma che la donna ha mentito, perché l’artigiano magister Pietro (padre del futuro marito di una delle figlie e anche lui coinvolto nelle accuse: probabilmente uno degli uomini che accompagnano Galeazzo nell’azione), non ha subornato e allontanato dalla loro casa le due donne, in quanto esse stesse volevano essere cristiane e battezzate “per seguire la fede cattolica, credere in Dio Padre onnipotente e in Gesù Cristo e allontanarsi dalla perfidia e dalla pertinacia dei giudei”. Le “menzogne” di Ventura, definita perfida iudea e mendax peccatrix, si estenderebbero anche al furto di gioielli e beni dalla sua casa.
Al lavoro del notaio Bernardino Sannazzaro si devono altri due documenti, redatti in contemporanea all’ora nona del 25 agosto 1486, nella casa di Ambrogio de Botulis/Bozulis, situata a porta Ponte a Pavia, nei quali l’ebreo Bellomo, anche a nome della moglie Ventura, rinuncia, a favore di Galeazzo de Trovatis, a procedere in qualsiasi controversia davanti al Consiglio Segreto, davanti al signore della terra di Breme Giovanni Pietro Visconti e davanti a Bartolomeo de Aliprandis, delegato ducale. Inoltre Bellomo e Ventura da una parte e Galeazzo dall’altra si accordano per affidarsi all’arbitrato di Ambrogio de Botulis/Bozulis. In entrambi i casi Bellomo giura sulle scritture ebraiche e secondo la legge di Mosè.
Terzo notaio, testimone delle vicende di Ventura, è Antonio Sisti che, all’ora ventiduesima circa del 22 settembre 1486, nella curia del palazzo comunale di Pavia, presso il collegio dei notai, registra la proroga di un mese, concessa da Ambrogio de Botulis/Bozulis, arbitro tra Bellomo e Ventura e Galeazzo de Trovatis, riguardo la scadenza del compromesso rogato dal notaio Bernardino Sannazzaro.
Quando ormai Bellomo è morto, Bernardino de Armaxonibus di Brembilla, figlio del magister Pietro, anche lui defunto, dichiara nei confronti della moglie Paola, un tempo ebrea e ora battezzata e cristiana, di aver ricevuto lire mille di imperiali in contanti a titolo di dote. È il tramonto del 24 settembre del 1487: il notaio Pietro Simone Sigalini redige l’atto a Sannazzaro de’ Burgundi, nella sua abitazione. Da un documento del 1498 del medesimo notaio sappiamo che Bernardino ha abbandonato il mestiere di artigiano che fu anche del padre, e, con i capitali portati in dote dalla moglie convertita, esercita l’attività di prestatore di denaro, ossia la tanto biasimata attività che praticava Bellomo suo suocero.
Al notaio Lorenzo Vaghi tocca in sorte la registrazione di altri eventi che riguardano Ventura e la figlia Caterina. All’ora terza del 24 novembre 1490 a Breme, nell’abitazione del podestà, Caterina, figlia di Bellomo ebreo, ora divenuta cristiana, dichiara nei confronti del magister Antonio de Mote di aver ricevuto ventidue lire di imperiali e un sacco di frumento, appartenenti alla stessa Caterina e depositati presso Antonio. L’apodixia //è sottoscritta dal notaio Girardo //de Magistris su richiesta delle parti a garanzia di maggiore validità. Infine c’è ancora Ventura coinvolta in una controversia con Isnardo Gargano che deve restituirle un mutuo di ventiquattro lire di imperiali ricevuto da Bellomo quando era ancora vivo, come risulta dalle dichiarazioni scritte consegnate al notaio stesso. Ventura accetta un pagamento ridotto a undici lire di imperiali a saldo per quanto dovuto da Isnardo a Bellomo, suo defunto marito. È il 10 febbraio del 1491 e l’atto è redatto da Lorenzo Vaghi a Breme, nella casa adiacente a quella di Stefano Falzoni.
Nell’arco di pochi anni la vita e l’identità familiare, la condizione economica degli ebrei Ventura e Bellomo da Breme sono sconvolte e non soltanto per un accadimento naturale come la morte, ma soprattutto per l’avidità delle persone che li circondano. I documenti notarili registrano una serie di fatti, che si configurano come accanimento contro i due coniugi e che progressivamente conducono al loro impoverimento e al sovvertimento degli affetti e della fede con le figlie sottratte alla loro casa e convertite alla religione cattolica. Per giunta l’attività di Bellomo, della quale traspare la sconvenienza agli occhi del mondo cristiano, diviene la nuova occupazione del genero come fosse perfettamente onorevole allo sguardo della comunità. Bernardino non ha competenze per tale attività, ma ha a disposizione le abilità della moglie, un tempo ebrea e come tale educata a condurre bene gli affari. La ricchezza si trasferisce in mani cristiane mediante la rovina dell’ebreo che la possedeva prima e sfruttando un patrimonio di conoscenze elaborato dal mondo ebraico.
La vicenda di Bellomo e Ventura avviene a ridosso di quella che nella storiografia è comunemente indicata come la prima cacciata degli ebrei da Pavia, fissata nel 1490. Per tutto il ‘900 si è fatto riferimento a un decreto di espulsione che sarebbe stato emanato il 3 dicembre 1490: nessuno ha meglio specificato i dettagli e l’anno, 1490, è molto sospetto, in quanto cade esattamente un secolo prima del decreto di espulsione emanato nel 1590 dal re di Spagna e attuato nel 1497, quando i Pavesi riuscirono finalmente a saldare i debiti verso gli ebrei. L’anno 1490 sembra più che altro la forzatura di un più innocuo decreto (seppure è mai esistito) del Duca: forzatura per avvalorare un supposto primato locale rispetto alla più nota (ed efficace) cacciata dalla Spagna nel 1492.
In realtà vicende analoghe a quella dei due coniugi, registrate in documenti notarili e ducali, inducono a pensare che si sia trattato non di una cacciata sancita da una decisione politica, ma di un allontanamento delle poche e ricchissime famiglie ebree, presenti nella città e nel suo territorio, provocato da debiti enormi nei loro confronti e mai saldati grazie all’intervento, nei tribunali, di testimoni favorevoli ai debitori e riconosciuti attendibili. Bancarotta o impossibilità di restituire i capitali depositati nei banchi, di fatto paralizzati nella loro attività, causano la messa al bando di singoli ebrei, un tempo detentori della ricchezza, apparentemente non in quanto uomini di stirpe ebraica, ma in quanto bancarottieri insolventi.
L’antisemitismo di buona parte dei pavesi, da sempre vivo, diviene più acceso e contemporaneamente si cela, assumendo il volto di cause giudiziarie per il recupero dei crediti che gli ebrei non vincono. Tale ostilità è meno ostentata rispetto a quella di gran parte del Cinquecento, quando a lungo una parte della città richiede a gran voce e insistentemente l’espulsione, adducendo come giustificazione pretestuosa un presunto voto al beato Bernardino da Feltre per ottenere la salvezza dall’assedio delle truppe di Francesco I. Una targa nella chiesa del Carmine di Pavia, dove fu sepolto il beato, ricorda come la cappella a lui dedicata fu oggetto di restauro e abbellimento nel 1939, casualmente poco dopo la promulgazione delle leggi razziali.
Suppliche rivolte al Duca da parte dei banchieri ebrei, che dichiarano di avere più crediti che debiti, non sortiscono effetto, perché ormai la benevolenza del signore nei loro confronti si è affievolita. Scarsa è anche la solidarietà che gli ebrei manifestano reciprocamente. Allora, per evitare l’imprigionamento, non resta che la fuga per gli ebrei banditi e le loro famiglie, fuga dal tempo trasformata nel mito della prima cacciata degli ebrei da Pavia. Per un decennio circa non sono più attestati ebrei residenti stabilmente a Pavia e soltanto ai primi del ‘500 compaiono sporadicamente.
Nel luogo del primo cimitero ebraico di Pavia, che gli ebrei, allontanandosi, lasciano all’abbandono, i pavesi costruiscono edifici coprendo le sepolture, quasi a voler estirpare ogni memoria della presenza degli ebrei in città. Scompare così la tomba del famoso rabbino talmudista Ioseph Colon, morto a Pavia nel 1480, insieme con quelle di altri ebrei rimasti anonimi.

Fonti archivistiche inedite

  • Archivio di Stato di Pavia, Notarile di Pavia
    • notaio Sisti Antonio, filza 604, c. 66r.
    • notaio Serra Giovanni Pietro, filza 650, c. 34r; c. 34v.
    • notaio Sannazzari Bernardino, filza 869, c. 188r-188v; cc. 193r-196r; cc. 189r-192v; c. 153r; c. 153r-153v.
    • notaio Sigalini Pietro Simone, filza 833, cc. 241r-242r.
    • notaio de Vachis <ma si intenda Vaghi> Lorenzo, filza 955, c. 274r-274v; c. 268v.

Fonti archivistiche edite

  • Archivio di Stato di Pavia, Notarile di Pavia
    • notaio Giovanni Pietro Balconi, filza 276: Shlomo Simonsohn, The Jews in the Ducky of Milan, I-IV, Jerusalem 1982-1986, in particolare: IV, p. 2835, alla data 31 agosto 1486.

Riferimenti bibliografici

  • Carlo Invernizzi, Gli Ebrei a Pavia, contributo alla storia dell’Ebraismo nel ducato di Milano, in «Bollettino della Società Pavese di Storia Patria», 1905, II, pp. 191-240, III, pp. 281-319; rist. anast.: Pavia 1997.
  • Renata Segre, Gli Ebrei a Pavia, in Storia di Pavia, vol. III, Dal libero comune alla fine del principato indipendente, 1024-1535. Tomo I: Società, istituzioni, religione nelle età del Comune e della Signoria, a cura della Banca del Monte di Lombardia, 1992, pp. 433-451.
  • Fabio Romanoni, Il mito del ghetto di Pavia e l’insediamento diffuso: abitazioni, sinagoghe e cimitero: La tormentata storia dei cimiteri ebraici di Pavia, in Fideles servitores nostri ebrei in civitate Papie. Documenti e riflessioni sugli ebrei a Pavia fino all'espulsione (1597), a cura di Ezio Barbieri, Varzi, Guardamagna editori, 2011, pp. 77-85, in particolare p. 79.

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et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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