Maria Stuart, regina di Scozia

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Maria Stuart (in ingl. Mary Stuart, Linlithgow, 8 dicembre 1542 – Fotheringhay, 8 febbraio 1587) è stata regina di Scozia dalla nascita al 1567 e regina consorte di Francia dal 1559 al 1560, nonché ufficiosa regina d’Inghilterra per i legittimisti che non riconobbero mai Elisabetta I Tudor come erede del re Enrico VIII.

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Biografia

L’ infanzia e il “brutale corteggiamento”

Mary Stuart (o Stewart, originariamente Steward), italianizzata in Maria Stuarda, fu una personalità particolare per la sua epoca, dotata di grande fascino, astuzia e carisma. Regina legittima di due stati, maritata ben tre volte per necessità politiche, abile cospiratrice al centro di un’eterna disputa con un’altra grande sovrana europea, Elisabetta I, per il possesso della corona d’Inghilterra e, infine, martire cattolica per i suoi fedelissimi sostenitori, Maria visse una vita tormentata, costellata da sofferenze, intrighi e dispiaceri che l’accompagnarono fin sopra il patibolo.
Nata nel 1542 nel palazzo di Linlithgow, in Scozia, dal re Giacomo V e dalla sua seconda moglie, la duchessa francese Maria di Guisa, Maria divenne regina a soli sei giorni dalla nascita, dopo la morte di probabile colera del padre ad appena trent’anni. Sotto il regno di Roberto II di Scozia era stato stabilito che la corona scozzese sarebbe dovuta passare in eredità soltanto ai discendenti maschi dello stesso Roberto ma, mancando eredi maschi legittimi, fu Maria ad essere riconosciuta regina di Scozia per diritto di nascita. Così, la bambina acquisì inconsapevolmente una corona di spine e un ruolo che l’avrebbe condannata per la vita a una continua lotta per la sopravvivenza.
«All’epoca il nord dell’isola britannica era un Paese desolato e selvaggio sconvolto, per di più, da una grave crisi interna. L’arroganza e il potere dei grandi clan mettevano spesso in crisi l’autorità reale e la dinastia degli Stuart era ancora fragile»1, così, nell’immediato, fu scelto come reggente del regno prima James Hamilton, conte di Arran e secondo a Maria nella linea di successione al trono, e in seguito la regina madre Maria di Guisa, che mantenne il potere fino alla propria morte nel 1560.
Nel luglio del 1543, quando la principessa aveva appena sei mesi, il conte di Arran firmò i “trattati di Greenwich”, che sancivano una pace tra l’Inghilterra e la Scozia e davano avvio al piano del re inglese Enrico VIII per unire i due regni tramite un matrimonio tra il figlio Edoardo VI e la principessa Maria. Inoltre, i trattati prevedevano che al decimo anno di età la principessa sarebbe stata consegnata agli inglesi per vivere in Inghilterra nell’attesa del matrimonio. Maria di Guisa, però, contraria alla proposta avanzata da Enrico VIII e sospettosa per alcune clausole dei trattati, tra cui il passaggio dell’intero regno di Scozia al re inglese in caso di morte prematura di Maria, due mesi dopo decise di nascondersi con la figlia nel castello di Stirling, dove iniziò i preparativi per l’incoronazione ufficiale della bambina: il 9 settembre 1543, a nove mesi, la principessa fu incoronata regina di Scozia nella cappella reale del castello di Stirling. Solo nel dicembre del 1943, il Parlamento scozzese rifiutò definitivamente i “trattati di Greenwich” e la regina madre decise di rimanere fedele all’Auld Alliance tra Scozia e Francia, preferendo il matrimonio tra sua figlia e il delfino di Francia, Francesco, figlio di Enrico II e di Caterina de’ Medici.
A questo punto, Enrico VIII dichiarò guerra alla Scozia, un conflitto che venne ribattezzato come “la guerra del brutale corteggiamento”, per poter imporre il matrimonio tra suo figlio e Maria. La guerra fu organizzata con una serie di incursioni sul territorio scozzese, dove le truppe inglesi scorrazzarono senza sosta oltre il confine dei due regni, per distruggere e saccheggiare qualsiasi città o villaggio incontrassero sul loro cammino. Nel maggio del 1544, il conte di Hertford arrivò fino a Firth of Forth nella speranza di espugnare Edimburgo e rapire Maria, ma la madre nascose la bambina nelle camere segrete del castello di Stirling, riuscendo a salvarla.
Dopo una pesante sconfitta subita dagli scozzesi nella battaglia di Pinkie Cleugh del 1547, la regina madre, preoccupata per la situazione, inviò temporaneamente la quattrenne Maria in un monastero nel priorato di Inchmahome, sulla più grande delle tre isole del Lago di Menteith, insieme ad altre quattro bambine, tutte coetanee della piccola regina e con lo stesso nome: «non dovendo lasciarla mai, sia nella buona che nell’avversa fortuna, furono chiamate le Marie della regina. Erano Maria Livingstone, Maria Fleming, Maria Seyton e Maria Beatoun.»2
Intanto, la Francia, per tener fede all’Auld Alliance, scese in campo al fianco degli scozzesi e salvò le sorti dello scontro contro gli inglesi. Una volta fuori pericolo, Maria di Guisa ratificò definitivamente il trattato di matrimonio tra sua figlia e il delfino francese presso un convento di monache vicino Haddington e trasferì Maria presso il castello di Dumbarton, in attesa di farla partire alla volta della Francia, dove l’aspettava un’educazione regale, un promesso sposo e un futuro da regina dei francesi.

Il trasferimento in Francia, il primo matrimonio e la rivendicazione del trono inglese

Nel 1548, a cinque anni, la piccola Maria dovette abbandonare la terra natia e trasferirsi in Francia per essere educata come futura regina; con lei, partirono anche le quattro “Marie della regina” e tre dei suoi fratellastri.
Una volta arrivata in Francia, dopo aver ricevuto la promessa di protezione da parte del re Enrico II, Maria venne spedita in un convento che accoglieva le fanciulle nobili del regno, per ricevere un’educazione che si adattasse al suo status regale. La piccola, infatti, venne istruita nelle lingue, imparando il francese, il latino, il greco, lo spagnolo e l’italiano; nella musica, apprendendo l’arte di suonare il liuto e il virginale; nella prosa e nella poesia. Inoltre, le venne insegnato a cavalcare, a cacciare, a danzare, a ricamare, a cantare e a conversare.
Un tratto distintivo di Maria era, però, la bellezza: la principessa era molto alta per il suo tempo – sarebbe arrivata a circa un metro e ottanta da adulta – e spiccava sugli altri grazie al portamento solenne e maestoso; aveva bellissimi capelli, biondo chiaro nell’infanzia e via via più scuri col passare del tempo, fino a raggiungere un colore fulvo, degli occhi nocciola dal taglio a mandorla, una bocca piccola e un naso dritto. La qualità più apprezzata del suo aspetto era il colore della pelle, bianca e perfetta, conservata intatta anche quando Maria si ammalò di vaiolo grazie ad uno speciale unguento, a differenza invece della cugina Elisabetta I, che rimase sfigurata dalla malattia.
Per dieci anni, Maria fu istruita ed educata come una gentildonna e come la futura regina di Francia, eccellendo in tutto ciò che le veniva insegnato: «intelligente, colta, vivace, seducente, adulata e coccolata, Maria crebbe isolata e felice in un mondo pericolosamente irreale.»3
Invece «il delfino, che aveva tredici mesi meno di lei, era mingherlino, rachitico, spesso malato, chiuso in un ombroso mutismo e di una intelligenza decisamente modesta»4 ma perdutamente innamorato della giovane scozzese e disposto a tutto pur di piacerle.
Così, il 24 aprile del 1558, Maria Stuart, vestita per la prima volta di bianco, un colore di solito legato al lutto, e Francesco I si sposarono a Notre Dame a Parigi, mantenendo fede agli accordi matrimoniali presi quando i due giovani erano ancora in fasce. Iniziava così per Maria la vita da moglie e, possibilmente, da futura madre del successivo erede al trono, sotto il vigile sguardo della regina francese, la temibile Caterina de’ Medici. Nonostante ciò, la vita alla corte francese era già nota a Maria e, da sposata, divenne più ricca e allegra, con feste, musica, canti e gare di poesia
Soltanto pochi mesi dopo le nozze, però, nel novembre del 1558, moriva la regina d’Inghilterra Maria Tudor, figlia di Enrico VIII. Secondo la linea genealogica di discendenza, Maria Stuart era seconda nella linea di successione al trono inglese, dopo sua cugina Elisabetta, la sorellastra della defunta sovrana inglese. I diritti al trono di Inghilterra della Stuart derivavano da Margherita Tudor, la sorella di Enrico VIII e nonna paterna di Maria: Margherita aveva infatti sposato Giacomo IV di Scozia, padre di Giacomo V, a sua volta padre della stessa Maria.
Elisabetta, invece, veniva considerata illegittima da molti sia nella stessa Inghilterra sia in molti regni d’Europa, poiché anche il suo stesso padre l’aveva dichiarata tale, annullando le sue nozze con la madre di Elisabetta, Anna Bolena. «Di conseguenza, a Parigi, Maria, che aveva cambiato il cognome in Stuart per renderne la pronuncia più facile ai francesi, fu proclamata regina d’Inghilterra, d’Irlanda e di Scozia»5 e il re Enrico II decise di reclamare il trono inglese per conto della sua giovane nuora, che da allora venne considerata regina di Inghilterra da tutti coloro che non riconoscevano Elisabetta come una legittima Tudor.
Nel luglio del 1559, Enrico II, mentre partecipava ad una giostra, rimase ferito a un occhio dalla scheggia di una lancia e poco dopo morì: suo figlio Francesco ascese al trono come re Francesco II e con lui Maria venne incoronata regina consorte di Francia. Fu quindi il marito di Maria a rivendicare nuovamente il trono inglese per la sua sposa e il titolo di re d’Inghilterra per sé, iniziando anche ad usare le insegne inglesi insieme a quelle francesi e scozzesi.
Intanto, in Scozia continuavano gli scontri con le truppe inglesi e la Francia decise di impegnarsi nuovamente al fianco degli scozzesi per ripristinare il potere della casata degli Stuart. Contemporaneamente, però, Elisabetta I iniziò ad appoggiare il partito ugonotto francese, che organizzò il tumulto d’Amboise, in seguito sedato, rendendo così impossibile per la Francia sostenere la regina Maria nella sua terra natia.
Nel giugno del 1560, morì la regina madre Maria di Guisa e poco dopo il Parlamento scozzese redasse il “trattato di Edimburgo”, con cui cercava di sciogliere l’Auld Alliance tra Scozia e Francia: il trattato richiedeva l’allontanamento di tutte le truppe francesi dal territorio scozzese, il passaggio dalla religione cattolica a quella calvinista e il riconoscimento di Elisabetta I come sovrana d’Inghilterra, con la conseguente esclusione di Maria dalla successione al trono inglese. Tale documento non venne però mai firmato né da Maria né dal suo consorte Francesco, che anzi disconobbero ogni clausola al suo interno poiché redatte senza il consenso della legittima sovrana di Scozia. Per tutta la vita, Elisabetta I cercò di convincere la cugina a firmare il trattato e a ritirare le sue pretese sul trono d’Inghilterra e per tutta la vita Maria rifiutò sempre di porre la sua firma su un documento da lei ritenuto non valido, poiché «in cuor suo, non abbandonò mai la pretesa di essere regina d’Inghilterra»6, facendola diventare un’ossessione che l’avrebbe poi condotta alla morte.

La vedovanza e il ritorno in Scozia

Regina consorte di Francia da ormai un anno e con il costante controllo della difficile situazione scozzese, Maria sembrava all’apice della propria potenza e felicità: bella, radiosa, elegante e vitale, la Stuart appariva destinata ad un futuro prospero. Non poteva, però, dirsi lo stesso del suo giovane consorte, sempre stanco e malaticcio e costantemente monitorato dai medici, che gli consigliavano di riposare e riguardarsi il più possibile. Invece, per non sfigurare con la sua bella moglie, Francesco II si forzava a cavalcare o a fare qualsiasi tipo di attività fisica per fingere una buona salute, contraendo invece sempre più spesso forti febbri che lo costringevano sfinito a letto.
Il 5 dicembre del 1560, dopo appena due anni di matrimonio, il giovane Francesco II si spense in seguito ad un’infezione a un orecchio, che gli causò un ascesso cerebrale. Vedova a diciotto anni, Maria, ormai soltanto regina di Scozia, indossò il caratteristico lutto bianco e visse in solitudine il periodo del lutto regale, circa quaranta giorni, per poi trasferirsi in Lorena dai suoi zii.
Intanto, Caterina de’ Medici divenne reggente per il figlio minorenne Carlo IX e, ritenendo impossibile che due regine vedove condividessero lo stesso paese, consigliò duramente a Maria, nel frattempo tornata a corte, di ritornare in Scozia per affrontare la crisi che si stava verificando nel suo regno. Infatti, il Parlamento scozzese, senza alcun assenso da parte della legittima sovrana, aveva ratificato la modifica inerente alla religione di Stato, passando dalla religione cattolica alla religione protestante.
In un primo momento, Maria pensò di ritirarsi in convento, lasciando i troppi oneri da cui si sentiva oppressa, ma fu un’idea soltanto fugace per una personalità giovane e ribelle come quella della Stuart. Inoltre, «era stata ventilata la possibilità di un matrimonio reale con don Carlos, figlio ed erede di Filippo II di Spagna»7, anche se il sovrano spagnolo non avrebbe mai voluto inimicarsi sua cognata, Elisabetta I, sorella della sua defunta moglie Maria Tudor, permettendo una simile unione.
Invece, i suoi zii Guisa avrebbero voluto che la nipote sposasse suo cognato Carlo IX, il nuovo re di Francia: il giovane, però, aveva appena dieci anni ed era governato da sua madre Caterina, che non auspicava ad avere nuovamente Maria come nuora e come regina di Francia. Così, la Stuart si risolse a partire per la sua terra natia, sbarcando nell’agosto del 1561 a Leith dove alcuni nobili, insieme al fratellastro Giacomo Stuart, conte di Moray, la scortarono fino ad Edimburgo. Maria era «pronta a ricoprire lo spinoso ruolo di sovrana cattolica di sudditi aggressivamente protestanti»8 ma, sebbene dotata di ogni forma di virtù e di grande volontà, era abbastanza inesperta a livello politico e non aveva mai toccato con mano la grave crisi che da qualche tempo divorava il suo regno: la Scozia era ormai divisa in due fazioni, quella cattolica e quella protestante, le quali si provocavano l’una con l’altra, provando ad aggiudicarsi la totale supremazia del suolo scozzese. Maria era una fervente cattolica, mentre il suo fratellastro era di fazione protestante; a ciò, si univa la condotta del riformatore calvinista John Knox, che predicava continuamente contro la Stuart, poiché disapprovava totalmente le donne al potere, soprattutto se si trattava di donne cattoliche. La sovrana, però, non seppe mai schierarsi apertamente con una o con l’altra fazione, tollerando di fatto i protestanti, con grande biasimo dei cattolici, e nominando come suoi consiglieri proprio due protestanti, il fratellastro Giacomo e il suo segretario William Maitland di Lethington.
Inoltre, la regina provò a riconciliarsi con la cugina Elisabetta I, inviando proprio il fidato Maitland come ambasciatore alla corte inglese, per sostenere la propria causa come potenziale erede al trono. La regina inglese, tuttavia, rifiutò di nominare ufficialmente un successore, per paura di poter essere eliminata e sostituita da un erede da lei scelto, ma assicurò all’ambasciatore che Maria era la sua candidata preferita tra i possibili eredi, dotata anche dei diritti più legittimi di altri.
Per continuare a mantenere un rapporto con Elisabetta, Maria decise di chiedere anche il suo parere
su un possibile candidato come sposo, avendo la Stuart la necessità di procreare un erede e mettere al sicuro la dinastia. La regina d’Inghilterra le suggerì allora il suo favorito, il protestante Robert Dudley, conte di Leicester, per poter così tenere sotto controllo la cugina e il suo operato e, di fatto, governare lei stessa la situazione politica scozzese attraverso Leicester. La Stuart, però che aveva intuito la manovra di controllo di Elisabetta, rifiutò tale proposta, facendo infuriare la cugina, e decise di scegliere da sola il suo secondo marito, per poter mantenere saldo il suo potere sul regno.

Il secondo matrimonio e la nascita dell’erede Giacomo

Esclusa la possibilità di sposare un principe straniero, come l’arciduca Carlo d’Austria, che le avrebbe fatto perdere i suoi diritti sul trono inglese, la Stuart individuò il suo secondo consorte nella figura di Enrico Stuart, Lord Darnley, di due anni più giovane. Costui era cugino sia di Maria che di Elisabetta poiché aveva come nonna Margherita Tudor (sposata in seconde nozze col sesto conte di Angus e madre di Margaret Douglas, a sua volta madre di Lord Darnley), che era anche la nonna di Maria nonché la zia di Elisabetta I.
Tale scelta fece infuriare Elisabetta I, sia perché non era stato richiesto il suo benestare per le nozze, in quanto Darnley era un suddito inglese, e sia perché Maria aveva scelto in maniera accorta un discendente di una Tudor per poter maggiormente rivendicare i suoi diritti al trono inglese.
La regina scozzese, però, era decisa a fare di testa propria, anche perché era rimasta seriamente affascinata da Darnley: il cugino, infatti, era bello ed elegante, aveva maniere affascinanti, sapeva comporre versi e fare musica, danzava e andava a cavallo agilmente. Maria, così, si innamorò e nel luglio del 1565, all’Holyrood Palace di Edimburgo, sposò Darnley e lo rese “re consorte”.
Il matrimonio con un cattolico portò gravi conseguenze nella vita di Maria: il suo fratellastro Giacomo, infatti, preoccupato da tale unione, guidò i lord protestanti in una rivolta contro la regina, rivolta finanziata anche da Elisabetta I. Maria, però, affrontò il problema scendendo in campo in prima linea e ben presto i ribelli furono sconfitti e costretti all’esilio, attraverso un’azione militare passata alla storia come “l’incursione di Chase-about”.
Poco tempo dopo, Maria rimase incinta e iniziò a rendersi conto che l’uomo che aveva sposato era un «marito spregevole, sempre ubriaco, animalesco e di un’arroganza intollerabile»9, che la ricattava continuamente per avere un potere adeguato al suo titolo di re e che in un’occasione non esitò ad aggredirla fisicamente, con l’intento di provocarle un aborto.
Ormai disgustata dall’uomo che aveva sposato, la Stuart trovò un confidente e un amico in Davide Rizzio (o Riccio), un musico di origini italiane, con cui strinse un rapporto molto confidenziale, tanto che si iniziò a chiacchierare che i due fossero diventati amanti. Questo strano legame iniziò a suscitare l’ostilità dei lord protestanti sconfitti da Maria, nonché le ire del marito che ormai non era più né rispettato né tenuto in considerazione dalla regina. Così, nel marzo del 1566, Darnley, nonostante la sua fede cattolica e con la promessa di ricevere la sospirata “corona matrimoniale”, si unì ai lord protestanti in una cospirazione e, durante un colloquio tra Maria e il musico, uccise Rizzio dinanzi alla moglie inorridita. Poco dopo, Darnely tradì i lord con cui aveva cospirato e cambiò nuovamente fazione, ma non riuscì comunque a riconciliarsi con la moglie e l’omicidio di Rizzio fu il definitivo punto di rottura del loro matrimonio. La Stuart, ormai, aveva compreso l’incapacità del suo sposo come marito e come regnante e pian piano lo aveva sempre più spogliato di ogni carica regale, decisionale e coniugale.
Il 19 giugno 1566 finalmente nacque l’erede atteso, Giacomo, e contemporaneamente fu ordito un piano per eliminare Darnley, che col suo carattere instabile e la sua insaziabile sete di potere avrebbe potuto rappresentare un pericolo perfino per il suo stesso figlio. Ufficialmente malato di vaiolo, o forse di sifilide, il marito di Maria si era ritirato in una casa di Edimburgo, per curarsi e riposare, e la stessa sovrana andava sovente a trovarlo, per far credere di essere sulla via della riconciliazione. Poco dopo, però, si verificò un’esplosione nella casa dove alloggiava Darnley e l’uomo fu ritrovato morto in giardino, con nessun segno sul corpo, tanto da far sospettare che non fosse morto per l’esplosione ma per strangolamento o soffocamento.
L’evento, che avrebbe dovuto liberare Maria dai suoi problemi, invece la danneggiò ulteriormente, perché venne accusata di essere a conoscenza del piano ordito per assassinare il marito, mentre il colpevole dell’omicidio venne ritenuto James Hepburn, quarto conte di Bothwell, un avventuriero vicino alla regina. Quest’ultimo fu anche processato per il delitto ma venne miracolosamente assolto per mancanza di specifiche prove, così come non fu mai provato che la stessa regina fosse a conoscenza del piano omicida o che addirittura ne fosse la mandante.

Il terzo matrimonio e l’abdicazione

Mentre Maria provava a riconquistare il sostegno dei suoi lord, dopo l’uccisione del secondo marito, Bothwell provava invece a convincere molti di loro a firmare l’“Ainslie Tavern Bond”, dove si accordava per sostenere le sue pretese di sposare la regina vedova.
Ormai, tutti i più intimi della regina erano certi che presto avrebbe scelto proprio Bothwell come successivo marito, una scelta dettata non dall’amore ma dalla consapevolezza di aver bisogno al suo fianco di un uomo forte, abile e capace di aiutarla a sostenere l’enorme peso del trono di Scozia.
Il 24 aprile del 1567, Maria visitò per l’ultima volta il figlio Giacomo, di dieci mesi, nel castello di Stirling. Durate il viaggio di ritorno ad Edimburgo, venne rapita da Bothwell, forse di comune accordo o forse solo su iniziativa dell’uomo, e condotta al castello di Dumbar, dove l’avventuriero potrebbe averla forzata a consumare immediatamente la loro unione, così da rendere inevitabile il matrimonio. Sia che la regina gli si fosse concessa volontariamente, sia che Bothwell le avesse usato violenza, ormai i due amanti erano marchiati agli occhi di tutti e Maria doveva ristabilire il suo onore sposando l’uomo che l’aveva rapita. C’era però un impedimento: Bothwell, che era stato sposato tre volte, era ancora legato alla sua terza moglie nel vincolo matrimoniale e dovette quindi attendere la richiesta di divorzio e il successivo scioglimento del matrimonio, prima di poter fare il passo successivo. Una volta risolto l’impedimento, il 15 maggio del 1567 Maria e Bothwell si sposarono nel palazzo di Holyrood con il rito protestante.
Anche il terzo marito, però, non si dimostrò all’altezza delle aspettative della regina: «brutale, vile e violento»10, era avvezzo a frequenti scatti d’ira e a scenate di collera che rendevano Maria esasperata.
Anche ciò costituì il pretesto affinché i nobili scozzesi si ribellassero a questa unione, sollevando un esercito contro di loro: i due schieramenti, quello dei nobili e quello di Bothwell e della regina, si fronteggiarono il 15 giugno a Carberry Hill, senza che ci fosse alcuna battaglia, poiché Maria aveva accettato di seguire i lord a condizione che fosse reinsediata sul trono e che il suo sposo fosse lasciato libero. I lord accettarono la proposta e scortarono la Stuart fino ad Edimburgo, dove la regina scrisse una lettera per Bothwell (che era intanto fuggito in Danimarca, dove sarebbe morto imprigionato e pazzo), in cui gli prometteva di riprenderlo accanto a sé non appena i tumulti coi lord fossero stati sedati. Tale lettera venne tuttavia intercettata e usata dagli stessi lord per rompere la promessa fatta alla sovrana, che, «odiata dai sudditi, disperata, sfinita, molto provata da una gravidanza che non arriva a termine, venne richiusa a Loch Leven, un castello sperduto su un’isola al centro di un lago»11, mentre il suo fratellastro Giacomo veniva scelto come reggente del regno.
Tra il 18 giugno e il 24 giugno, la regina abortì due gemelli, mentre i lord cercavano con ogni mezzo di ottenere il passaggio della corona dalla regina a suo figlio. Alla fine, una svolta inaspettata nell’estenuate tira e molla tra Maria e i lord fu data da James Douglas, IV conte di Morton, che scoprì ad Edimburgo uno scrigno d’argento con incisa una “F”, regalo del primo marito Francesco II alla sovrana di Scozia, che quest’ultima aveva poi donato a Bothwell. «In questo scrigno sicuro, che si apriva solo con un complicato sistema di chiavi, Bothwell usava tenere da allora i suoi documenti privati, probabilmente anche la promessa di matrimonio, le lettere della regina, oltre a tutta una serie di documenti compromettenti per i lord»12, il cui contenuto provava che la regina era implicata insieme a Bothwell nell’omicidio del precedente marito, lord Darnley. L’autenticità di tali lettere venne messa in discussione dalla stessa regina, che sostenne come la sua scrittura fosse di facile imitazione, ma ormai i lord avevano trovato il pretesto per costringerla a lasciare il trono.
Il 24 luglio del 1567, Maria fu costretta a firmare il documento con cui dichiarava l’abdicazione in favore del figlio Giacomo, che aveva appena un anno e a cui fu dato il nome di Giacomo VI di Scozia.

La prigionia inglese e i complotti contro Elisabetta I

Nonostante la firma del documento che la deponeva come regina del suo regno, la prigionia di Maria continuò ancora per molti mesi, finché il 2 maggio del 1568 non riuscì a scappare da Loch Leven, grazie alla complicità di George Douglas, uno dei figli del suo custode sull’isola.
Una volta libera, la Stuart radunò un piccolo esercito e si mise al suo comando, esortando i soldati a seguirla per la vittoria. Il 13 maggio, però, il suo esercito fu sconfitto nella battaglia di Langside e Maria, sentendosi perduta, decise di fuggire in Inghilterra, sulla base di una lettera della cugina Elisabetta che le prometteva aiuto e ospitalità. Tuttavia, una volta approdata in Inghilterra il 19 maggio, la cugina la fece imprigionare dai suoi ufficiali e in seguito la fece trasferire nel castello di Bolton, per tenerla sotto osservazione.
In un primo momento, Elisabetta I si risolse a trattare la cugina con ogni riguardo, pur mantenendola
a tutti gli effetti come una prigioniera, sorvegliata a vista e non lasciata mai completamente sola. Poi,
dopo un momento di indecisione, la regina inglese decise di ordinare un’inchiesta per accertare se Maria era implicata o meno nell’assassinio del secondo marito, lord Darnley: l’inchiesta si svolse a York dall’ottobre del 1568 al gennaio del 1569 e, sebbene fosse politicamente influenzata dalla sovrana d’Inghilterra, quest’ultima non volle accusare apertamente la cugina di omicidio.
Avvertita dell’inchiesta, Maria si rifiutò di essere processata da un tribunale qualsiasi in quanto era “una regina consacrata da Dio” e si indignò nello scoprire che l’uomo incaricato di perseguirla penalmente non era altri che il suo fratellastro Giacomo, reggente di Scozia e quindi intenzionato a mantenere Maria fuori dal regno.
L’indagine venne incentrata sulle famose “lettere del cofanetto”, ossia su un componimento poetico e otto lettere scritte presumibilmente da Maria a Bothwell e da questi conservate insieme ad altri documenti in uno scrigno d’argento, dono del primo marito Francesco II a Maria e poi da lei regalato al terzo marito Bothwell.
Tali lettere indicavano che Maria era implicata insieme a Bothwell nell’omicidio del suo secondo marito, lord Darnley, nonostante la regina scozzese si fosse già precedentemente difesa asserendo che le lettere erano state scritte da qualcun altro, che aveva imitato la sua grafia. Era possibile, in effetti, che le lettere ritrovate fossero completamente false o che fossero state manipolate in modo da inserire passaggi incriminati all’interno del testo originale, imitando la calligrafia della Stuart.
Nonostante le dichiarazioni di estraneità ai fatti promulgate da Maria, i commissari dell’inchiesta accettarono la presunta autenticità delle lettere, sulla base di un confronto calligrafico con altre lettere scritte dalla regina scozzese, e, anche se non si erano ottenute prove certe, «ragioni politiche spingevano Elisabetta, che non aveva l’intenzione di sottoporre la cugina a un processo, a concludere per una formula dubitativa»13, trattenendo ancora la cugina sotto la sua custodia e rispedendo Giacomo Stuart come reggente in Scozia.
Dopo l’inchiesta, nel gennaio del 1569, Elisabetta fece trasferire nuovamente Maria, questa volta nel castello di Tutbury, dove la Stuart, «esigente, pianificatrice, assolutamente ingannevole, si rodeva d’inquietudine sotto la nervosa supervisione del cugino di Elisabetta, Francis Knollys. Era a tutti gli effetti una prigioniera inglese.»14
Nel castello di Tutbury, situato vicino a una palude e perciò insano per la salute della regina scozzese, Maria conobbe George Talbot, sesto conte di Shrewsbury, che, insieme a sua moglie, sarebbe stato il suo custode per i successivi anni. Iniziò così il periodo della prigionia inglese di Maria Stuart, la cui attività principale per passare il tempo divenne il ricamo: fu in quest’occasione che iniziò a ricamare sui suoi vestiti il suo famoso motto “Nella mia fine è il mio principio”, a cui affiancò anche lo stemma della madre Maria di Guisa, ossia una fenice che risorgeva dalle fiamme, a simboleggiare la vittoria dell’anima sul corpo dopo la morte.
Ben presto, «si cominciò a vociferare che Talbot non fosse del tutto insensibile al fascino della scozzese, e che Maria non esitasse ad approfittare del suo ascendente sul conte per ottenere favori e servigi di vario genere»15, finanche informazioni sulle condizioni politiche sia della sua Scozia che dell’Inghilterra.
Essendo peggiorate le sue condizioni di salute, la Stuart fu trasferita prima a Wingfield e successivamente a Chatsworth House, dove iniziò un rapporto epistolare con Thomas Howard, quarto duca di Norfolk e cugino di Elisabetta. Maria sperava di poter sposare Norfolk e di poter essere finalmente liberata, contando addirittura sull’approvazione regia al suo nuovo matrimonio; inoltre, il conte di Leicester informò la sovrana scozzese che, se avesse mantenuto la fede protestante in Scozia e avesse sposato Norfolk, i nobili inglesi l’avrebbero rimessa sul suo trono e l’avrebbero fatta nominare legittima erede di Elisabetta I. Invogliata da simili promesse, Maria si fidanzò con Norfolk, ma quando la regina d’Inghilterra scoprì le trattative segrete, si infuriò e fece rinchiudere Norfolk nella Torre di Londra, mentre rimandò sua cugina nuovamente a Tutbury.
Nel maggio del 1570, Maria fu trasferita di nuovo a Chatsworth House e contemporaneamente papa Pio V promulgò la bolla “Regnans in Excelsis” con cui scomunicava Elisabetta e rendeva liberi i suoi sudditi cattolici. Ciò fu il pretesto per alcuni signorotti locali per organizzare un piano di fuga per liberare la regina scozzese, che però preferì non essere coinvolta poiché confidava ancora che sua cugina Elisabetta, ormai vicina ai quarant’anni e senza un erede, la reinsediasse sul suo trono e la scegliesse anche come sua erede al trono inglese.
Ad agosto, il duca di Norfolk fu liberato dalla Torre e poco dopo prese parte a una pericolosa cospirazione, conosciuta come il “complotto Ridolfi”: il banchiere italiano Roberto Ridolfi agì da intermediario tra Norfolk e Maria Stuart per far sì che i due si sposassero e, una volta eliminata la sovrana inglese, salissero al trono d’Inghilterra. Tale complotto però, che prevedeva anche l’aiuto di potenze straniere come la Spagna, venne scoperto da Elisabetta I, che fece arrestare i congiurati: Norfolk venne processato, condannato a morte e giustiziato e Maria rimase ancora una volta una prigioniera inglese.
Nel corso dei successivi anni, molti altri complotti furono organizzati per assassinare la regina inglese e far salire al trono la Stuart, ma «nel 1586 fu tesa una trappola a Maria volta a ottenere le prove necessarie a incriminarla per tradimento»16, facendole approvare, per iscritto, un piano per assassinare Elisabetta. Il complotto, famoso come “complotto Babington”, fu una vera trappola organizzata da sir Walsingham, capo delle spie di Elisabetta, e dai nobili inglesi che volevano sbarazzarsi della regina scozzese unita a un reale tentativo di liberare la Stuart da parte di sir Babington: Maria iniziò una corrispondenza con Babington, che le inviò un piano di fuga e un piano per eliminare la cugina Elisabetta, lettere che erano intercettate e decriptate da sir Walsingham, che non aspettava altro che una risposta compromettente da parte di Maria per condannarla. Quest’ultima, dopo alcuni tentennamenti, decise di rispondere vagamente, con un piano atto a liberarla e senza menzionare la morte di sua cugina: la postilla riguardante l’assassinio fu così scritta da Phelippes, il decrittatore di Walsingham, che aveva così un pretesto per denunciare Maria e lo stesso sir Babington, che fu arrestato e condotto nella Torre di Londra, dove confessò l’intero piano.

Il processo e la condanna a morte

Una volta scoperti, tutti i congiurati vennero torturati, processati e infine giustiziati, mentre la regina Elisabetta I si convinse ad istituire un processo contro la cugina, che nel settembre del 1586 venne trasferita nel castello di Fotheringhay. Vi era però una difficoltà: un sovrano straniero non poteva essere giudicato da un qualsiasi tribunale, ma soltanto da persone sue pari; nessuno dei lord inglesi, ovviamente, era al pari della regina di Scozia e nemmeno la regina Elisabetta avrebbe potuto giudicarla. Per aggirare l’ostacolo, si puntò sul fatto che il complotto fosse stato ordito in Inghilterra e perciò venne istituito un tribunale formato dai più grandi nobili inglesi. A tale decisione, la regina scozzese si oppose fermamente, asserendo di essere una sovrana consacrata da Dio e di non poter partecipare ad alcun processo istituito contro di lei, ma alcuni commissari le imposero, come suddita inglese, la partecipazione al processo, altrimenti sarebbe stata giudicata e condannata in absentia.
Avendo ormai capito che il processo sarebbe stato una farsa e che sarebbe stata condannata a morte, la Stuart accettò di comparire in tribunale e fu processata il 15 ottobre 1586 con l’accusa di alto tradimento. Più volte Maria cercò di difendersi, ribadendo di essere una sovrana per scelta di Dio e di non poter sottostare a delle leggi inglesi, per poi affidarsi completamente al volere di Dio.
Nonostante la ragion di Stato, Elisabetta era terrorizzata all’idea di dover mandare a morte una regina consacrata, nonché sua parente, poiché «piegare sotto la scure la nuca di una regina incoronata significava in sostanza mostrare ai popoli europei, finora passivi, che anche il sovrano era una persona giudicabile e giustiziabile e non un essere intoccabile: la decisione di Elisabetta non riguardava un essere mortale, ma un’idea»17, e per questo provava a rimandare di mese in mese la firma della condanna di esecuzione. Addirittura, la sovrana inglese arrivò a chiedere al carceriere di Maria, Sir Paulet, di pianificare un incidente per eliminare la cugina, così da evitare un’esecuzione pubblica e formale, ma l’uomo rifiutò per non macchiare il suo onore e la sua discendenza.
Così, dovendo prendere una decisione finale, nel febbraio del 1587 Elisabetta I d’Inghilterra firmò la condanna a morte per Maria Stuart, che riuscì «a far passare la sua morte – in realtà il castigo di una maldestra cospiratrice politica – come un sacrificio sull’altare della fede cattolica»18 e si mostrò, la mattina dell’8 febbraio 1587, nelle vesti di una martire. Né sua cugina Elisabetta, né tantomeno suo figlio Giacomo VI, che ambiva ad avere totalmente il trono scozzese insieme al trono inglese, avevano mostrato pietà per Maria, che si presentò dinanzi al boia con l’eleganza di una regina, rivolgendogli poche parole: «Vi perdono di tutto cuore, perché spero che questa morte ponga fine a tutte le mie sofferenze»19. Poi, le sue dame l’aiutarono a spogliarsi del suo ricco abito da cerimonia, rivelando una sottoveste rosso scarlatto, il colore dei martiri cristiani, e la bendarono, lasciando poi che Maria si inginocchiasse presso il ceppo, pronunciando infine le sue ultime parole: “Signore, nelle tue mani affido il mio spirito”.
Con ben tre colpi di scure, moriva così la regina di Scozia, Maria Stuart, una delle regine più affascinanti ed infelici, che venne sepolta nell’abbazia di Westminster, la stessa che avrebbe accolto anche le spoglie mortali della sua più accesa rivale, la cugina Elisabetta I. Quest’ultima, nubile e senza eredi, avrebbe trasmesso la corona inglese al figlio di Maria, Giacomo VI Stuart, che avrebbe definitivamente unificato il regno scozzese e il regno inglese sotto il suo dominio, originando una linea di successione che sarebbe poi giunta fino ai nostri giorni: l’attuale regina inglese, Elisabetta II, è infatti discendente di Maria Stuart alla tredicesima generazione.

Bibliografia

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  • Allan Massie, Gli Stuart. Re, regine e martiri, Della Porta Editori, Pisa, 2017.
  • Andrea Accorsi e Daniela Ferro, Le famiglie più malvagie della storia, Newton Compton Editori, Roma, 2013.
  • Andrea Antonioli, Il secolo d’oro del Rinascimento, Newton Compton Editori, Roma, 2017.
  • Carole Levin, The reign of Elizabeth I, Palgrave Macmillan, New York, 2002.
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  • Marina Minelli, Le regine e le principesse più malvagie della storia, Newton Compton Editori, Roma, 2013.
  • Raffaele D’Amato, Le grandi dinastie che hanno cambiato la storia, Newton Compton Editori, Roma, 2014.
  • Stefan Zweig, Maria Stuarda. La rivale di Elisabetta I d’Inghilterra, Bompiani, Milano, 2001.

Nota bene

Questa voce fa parte della sezione "Dominae fortunae suae". La forza trasformatrice dell’ingegno femminile, che approfondisce il contributo offerto dalle donne alla nascita e allo sviluppo dei diversi campi del sapere.

Article written by Martina Tufano | Ereticopedia.org © 2020

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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