Salviati, Filippo

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Filippo Vincenzo Romolo Salviati (Firenze 29 gennaio 1583 - Barcellona 22 marzo 1614), filosofo e scienziato.

Un mirabile percorso rettilineo. Da homo ludens a homo novus

Filippo Salviati nacque in Firenze il 29 gennaio 1583 [1582 more florentino] da Averardo di Filippo e da Alessandra di Giovambattista Nerli, morta dopo il parto, il 2 febbraio.
Filosofo e matematico, fu amatissimo amico e sodale di Galileo, che ne fece, dei tre interlocutori del Dialogo sopra i due massimi sistemi, quegli che più degli altri esprime il suo pensiero, ed essenzialmente a ciò si deve se il suo nome è pervenuto fino a noi, nonostante in vita la sua fama, per filosofia e dottrina, oltrepassasse i confini d’Italia.
La graduale perdita nel tempo di dati documentali finì per irrigidirlo nella sola icona del personaggio galileiano, sfocandone personalità e vicende, la cui laboriosa ricostruzione lascia tuttora qualche zona buia, sia per la scomparsa della sua corrispondenza e appunti di studio, sia soprattutto in relazione a una storia oscura che ne attraversa gli ultimi cinque di vita e che verrà a incrociarsi con il suo percorso a fianco di Galileo.
Consanguineo dei granduchi di Toscana, di potente e facoltosa famiglia, che ricoprì molte elevate cariche pubbliche, i cui banchi fin dal Quattrocento erano fiorenti in Europa, con alte parentele, come sovrani, papi, cardinali e frequentazioni illustri di principi e eminenti dignitari, alimentò fin dalla prima fanciullezza un inestinguibile spirito eroico che lo distinse in ogni sua azione spingendolo a quell’antica virtus che nelle figure dei grandi condottieri trovava l’ideale cui uniformarsi, mal compensato nelle sue aspirazioni da un disturbo d’asma, subentrato forse nella giovinezza.
Cosa che non gli impedì di esercitare tutte le arti cavalleresche, tornei, sbarra, scherma, nuoto, caccia col falcone, che praticava con audacia e leggiadria, partecipando con evidenza alle solenni occasioni di ingressi, visite, feste e celebrazioni. Nel 1600, per il matrimonio di Maria Medici con Enrico IV di Francia, fu tra i giovanetti del corteo all’ingresso del Legato pontificio Aldobrandini; prese parte alla giostra del saracino; fece costruire l’apparato per la lizza in S. Croce; il suo nome è tra gli accompagnatori della regina in Francia sulla nave san Sebastiano con don Giovanni Medici; nel 1608, nelle nozze del principe Cosimo con Maria Maddalena d’Austria, da una barca che fece trasformare da Giulio Parigi in scoglio d’Arno, offrì minerali rari alla sposa nel corso dell’Argonautica combattuta sul fiume, ove lo sposo impersonava Giasone; prese parte alla Giostra dei Venti come padrino del principe don Francesco Medici nelle vesti di Eolo re dei Venti; altri simili interventi nelle visite di grandi principi. Significativa in particolare la sua partecipazione alla barriera per l’ingresso del principe d’Urbino nel carnevale 17-19 febbraio 1613 ove si celebrò, con altre manifestazioni, la scoperta galileiana dei pianeti medicei con i “Cavalieri delle Stelle medicee” ed egli, venuto con Galileo dalle Selve, fu con don Giovanni nella giostra Comparsa d’Araspe, re dei Persiani.
Alle imprese di cavaliere affiancava notevole maestria nel suonare vari strumenti, soprattutto quelli di tasti, conseguita con la guida di insigni musicisti, sperimentata anche con modificazioni tecniche fatte apportare ad alcuni strumenti, affiancata inoltre dall’apprendimento del canto.
Esiste di lui bambino un ritratto in abito da chierichetto affrescato dal Passignano alla parete sinistra della cappella Salviati in San Marco, fatta edificare dai fratelli Averardo e Antonio, con l’apporto di grandi artisti, per accogliere le tombe di famiglia del loro ramo e le spoglie di San Antonino Pierozzi, in occasione della traslazione del suo corpo e delle nozze del granduca Ferdinando I con Cristina di Lorena. Da entrambe le pareti si ricava l’intera cerimonia svoltasi nella chiesa e la solenne processione per le vie di Firenze, con il granduca e altri principi al baldacchino del santo e ritratti di altri eminenti personaggi.
Dal 1595, alla morte del padre, fu pupillo dello zio Antonio che lo instradò al governo del loro impero bancario.
Con don Giovanni nel 1601, come più tardi con Benedetto Castelli, si recò alle Chiane a rilevare il livello delle acque, cosa da cui desumere un interesse già di natura tecnica e scientifica.
Venuta a mancare la sorella Lucrezia, la sola con cui viveva – Elisabetta era andata sposa nel 1598 a Bernardino di Ludovico Capponi e Maddalena Vettori – si trasferì all’inizio del 1602 per svariati mesi a Roma dove, tra villa Medici, il sontuoso palazzo-corte dello zio cardinale Anton Maria Salviati, sito alla Lungara, ai piedi della salita di S. Onofrio, e il palazzo di famiglia propinquo alla chiesa del Gesù, celando duramente il dolore di quella perdita, condusse una vita piuttosto libera, apparentemente allegra, cosa che avrà peso in avvenimenti successivi.
Effetto invece immediato al suo ritorno, furono i preoccupati interventi da parte del granduca Ferdinando e dello zio cardinale Alessandro Medici, fratello uterino della nonna, sposata con il senatore Filippo Salviati, per persuaderlo a prender moglie, il che avvenne nel settembre 1602 nella persona di Ortensia di Francesco Guadagni e Laura Bandini, sorella di Cassandra seconda moglie dello zio Antonio Salviati. Le nozze videro la partecipazione dei granduchi, dei cardinali Dal Monte e Montalto e dei massimi dignitari e nobili della corte con festeggiamenti protrattisi fino alla fine dell’anno.
Il 28 agosto 1603 nacque la figlia Alessandra.
Nel 1604 fu Maestro di camera della granduchessa.
Nel 1605 tornò a Roma per l’elezione al trono pontificio dello zio Alessandro Medici col nome di Leone XI, (il suo papato durò soltanto 26 giorni, non senza sospetto di avvelenamento da parte spagnola) che ebbe a esprimergli pubblicamente il suo apprezzamento.
L’anno 1606 segnò una svolta decisiva nella sua vita. Prese a studiare segretamente per dieci ore al giorno senza tralasciare nessuno dei suoi impegni e senza che alcuno ne avesse sentore. Approfondita la conoscenza del latino, appreso nei primi rudimenti con le altre discipline di base nell’istruzione d’infanzia, impadronitosi della lingua greca, prese a leggere gli autori del mondo classico, poeti e storici dapprima, indi i filosofi, i matematici, i geometri per accedere poi ad Archimede, soffermandosi altresì sul pensiero eliocentrico antico; sua guida, sul principio, Giulio Libri, l’Abburattato in Crusca, presto abbandonato a causa delle strettoie del suo pensiero peripatetico. La profonda conoscenza di Aristotele, ampliata anche ad Averroè e Tommaso d’Aquino, lo indusse a cercar oltre «le colonne d’Ercole […] delle naturali, e celesti speculazioni». Le «sottilissime dimostrazioni» da lui congegnate e gli «ingegnosi ritrovamenti» di cui riferisce Niccolò Arrighetti (N. Arrighetti, 1614, p. 34; p. 37), rappresentano l’indicazione sintetica del superamento non tanto della lectio aristotelica quanto del gravame costituito dal pensiero peripatetico, responsabile primo, accanto al predominio teologico su ogni scienza, dell’immobilismo filosofico e del suo inattaccabile perdurare.
Fu quando uscì allo scoperto, ormai saldo nella dottrina, che la sua casa in via del Palagio divenne centro pulsante di dibattito e dispute, aperta a filosofi e letterati tale che nell’estate del 1611 vi si terrà la controversia sulle galleggianti alla presenza di Galileo e di molti suoi oppositori.
In concomitanza con ciò, nel 1610, dopo lunghi contrasti di anni con lo zio Antonio, ritirò la sua parte di capitale per occuparsi solo degli studi e interessi scientifici. Se dovette restituirla contentandosi di una rendita inferiore, costituì stabilmente, impegno assunto con criterio professionale quale propria identità e misura, privo di qualunque dilettantismo, il suo rapporto con Galileo trasferitosi da poco a Firenze, ma ivi certo incontrato nelle sue visite predenti, e forse non in Padova come asserito da Viviani. Ne è prova il fatto che in quel medesimo anno così pieno di fervore e dolore, persa l’unica amatissima figlia in ottobre, partì per le Selve con lo scienziato che era a Firenze solo da settembre, e con lui vi rimase a lungo.
Il 7 luglio del medesimo 1610, venne iscritto all’Accademia della Crusca, del cui Vocabolario, per sua lungimiranza culturale e liberalità, fu il maggiore finanziatore. Il furore di gloria e dell’impresa si riverbera nella sua Pala accademica, un fascio di grano appeso a una lancia romana, e nel motto «sotto ‘l qual si trionfa» (F. Petrarca, Canzoniere, 366, v. 19) cui contestualizzare anche il senso del suo nome accademico, Affidato, da riferirsi in duplice valore sia alla floridezza del grano affidata alla sicurezza della cosa pubblica, sia a se stesso che si affida alla Crusca consapevole della rigorosa tutela che essa esercita sulla lingua quale veicolo di cultura e di progresso (vedi E. Benucci, in A. Caracciolo, 2016).
Inoltre, a seguito della perdita della figlia, stese un testamento nuovo – nel precedente l’aveva nominata erede universale – in cui istituì il maggiorasco di linea maschile, che permarrà fino all’estinzione del ramo alla fine del ‘700, nel quale disponeva che gli eredi non esercitassero «per mio gusto particolare […] atto alcuno di mercatura» parendogli più che bastevole il patrimonio con quell’attività acquisito (ASF, Notarile moderno 10939, n. 19, 27 gennaio 1611, vedi A. Caracciolo, 2001, pp. 325-326). Significativo ragguaglio che induce implicitamente a occuparsi dell’esercizio della mente e delle nobili arti del sapere piuttosto che dell’accumulo di denaro. Aspetto che contribuisce a delineare un percorso il cui naturale esito sarebbe stato il sodalizio con Galileo.
Altro sbocco naturale dei suoi studi delle matematiche e scienze cosmologiche e della contiguità con la ricerca galileiana, è il suo accesso alla visione copernicana dell’universo, rafforzata da una lettura determinante quale il De magnete di William Gilbert la cui «magnetica filosofia» (G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, Einaudi, Torino 1970, p. 473), dimostrando come la Terra sia dotata di «sua magnetica virtute» (W. Gilbert, De magnete, Petrus Short, London 1600, p. 224), ne conferma il moto aprendo, tramite il magnetismo, che molto interesserà Salviati, verso la intuizione della gravitazione universale.
Interessi ampliati anche ad altri orizzonti: la sua formazione stoica, nutrita sui filosofi antichi e moderni, sistematicamente alimentata sugli storici più rispondenti al suo spirito, quali Plutarco e il mito di Alessandro Magno, Sallustio, Svetonio, Tacito, Giusto Lipsio, ma anche sulle imprese moderne come le guerre di Fiandra documentate da Pompeo Giustiniano; inoltre libri di viaggi e terre esotiche, qualche testo di alchimia e, perfino, il Compendio dell’arte esorcistica di Girolamo Menghi, ma soprattutto erbe medicinali, interesse connesso a un’idea della medicina non canonica, non soggetta, anche in questo caso, all’auctoritas della medicina ufficiale e alla regola. Lo si può constatare in occasione del suo ferimento nell’assalto del 1611 (vedi qui al paragrafo seguente) quando, licenziati i medici che da pochi giorni lo curavano, si servì di medicamenti alternativi e di esperti empirici non appartenenti alle arti chirurgica e spagirica, suscitando tra i medici accademici allarmanti quesiti sulla validità formale, ed effettuale, di tali interventi, nonché su simili scelte da parte del fruitore.
Si realizza una continuità nel suo passare dall’homo ludens ai fermi caratteri dell’homo novus: il medesimo impegno, l’ardimento, la partecipazione totale dell’animus impiegati nelle imprese cavalleresche, riversati in quelle dell’intelletto. È qui che la qualità della sua presenza si definisce nettamente a fianco di Galileo e nell’impronta che segna l’area dei suoi sostenitori fiorentini, anche se non ne condividono quotidianamente, come lui, il percorso della ricerca.
Un suo ritratto, in retrospettiva, si ricava deduttivamente dalle parole infuocate del denunziante Caccini, nel menzionare «certi petulanti ingegni» che «si chiamano Galileisti» (A. Favaro, Galileo e l’Inquisizione. Documenti del processo galileiano, Barbèra, Firenze 1907, anast. 1983, p. 48; p. 51), definiti nella denuncia del padre Lorini «un poco saccenti e duretti nelle loro opinioni» (Ivi, p. 38). E se l’accusa investe indistintamente l’intera area, certo l’immagine più viva che ne emerge è quella di Salviati, solidamente motivato nella sua opposizione all’immobile visione delle cose, pacato e fermo così nella dottrina come nell’ironica provocazione, fondato non già su “opinioni” ma su dati accertati. Viene in mente quel riso suscitato in Roma dal «dubbio che [Salviati] mandò a domandare a quello amico» che «ha fatto ridere più di quattro galantuomini», come da divertita relazione di Cigoli (A. Favaro (a cura di), Le Opere di Galileo Galilei, XI, Cigoli a Galilei, 28 luglio 1612. Da qui in poi solo Opere).
Un filosofo libero, come lui stesso, presentando Baliani a Galilei (Opere, XI, Salviati a Galilei, 27 dicembre 1613), indirettamente si definisce nell’aggiungere un’espressione basilare per comprenderne la qualità: «all’usanza nostra», con cui delinea una consuetudine e pratica quotidiana del libero filosofare esercitato con il sodale, nostra, nello studio delle cose naturali.
Libero dai lacci dell’asservito pensiero innanzitutto, non soggetto all’auctoritas del dogmatismo e alla concezione di un universo stratificato nelle assertive teorie di una non esperita scienza; una libertà pertanto che deriva le sue ragioni dalla consapevolezza della propria necessità nell’indagine della natura, le cui leggi non si flettono a servizio di una o altra opinione ma si deducono unicamente attraverso la provata esperienza e verifica sperimentale: queste non possono soggiacere ad alcuna norma estranea al loro stesso costituto. La libertas philosophandi si dimostra perciò connaturata di per sé alla filosofia naturale in quanto trae il suo fondamento dal carattere incontrovertibile del vero naturale: su tale dato si basa quella rigorosa tenacia che caratterizza in Firenze i ‘galileisti’, in particolar modo Salviati. La relazione libertà/verità naturale rende strenua la difesa non solo del vero ma del diritto al vero.
Tale il suo rapporto reale e materiale con Galileo, troppo spesso ridotto a semplice mecenatismo e cordiale ospitalità. La condivisione da un lato di una grandissima aventure della mente e della scienza, dall’altro di un rigore metodologico costruito mattone su mattone con paziente ‘manualità dell’intelletto’, già di per sé oggetto naturale di opposizioni da parte degli assertori del ‘già certo’, costituisce per Salviati la dimensione concreta in cui realizzare l’homo novus.
Egli aveva raggiunto notevole fama nella repubblica filosofica. Basti considerare quanto di lui attestano uomini illustri che non lo avevano mai incontrato di persona. Già solo nel 1612, il 2 giugno Sagredo scrive a Galileo: «amato et stimato da me per molte relationi del merito suo venutemi da più parti» e Cesi, il 4 luglio, che di lui gli sono già noti «l’ingegno, il valore, le qualità» e il 21 luglio: «il nome suo era appo tutti dal’istessa virtù reso celebre» (Opere, XI).
E se, come recitano anche le Lodi funebri, nel corso del suo ultimo viaggio in ogni città toccata, compresa Barcellona, venivano a rendergli onore «personaggi di gran potenza, tirati dalla contezza del suo gran nome» (Arrighetti, 1614, p. 44), è facilmente desumibile quanto con la sua fama fosse estesa anche la sua posizione filosofica e scientifica a fronte delle imperanti strettoie imposte alla libertas philosophandi dalle angustie dell’auctoritas.

Un incrocio pericoloso con Galileo

Ma la sua storia di filosofo libero si incrocia con altra vicenda che, attraverso fasi sempre più minacciose, lo costringerà a partire improvvisamente. «1613. in circa per causa di precedenza di Carrozza con D. Bernardetto de’ Medici Nipote di Leone XI, inimicizia non ordinaria, che fu la cagione et origine della partenza dalla Patria». Questa la fonte, a nostro avviso prima e unica ma massimamente informata, (La notizia figurava in un libro di Oroscopi della Libreria Nelli. Pubblicata da Favaro, 1966, II, pp. 304-305) che motiva sia pur ermeticamente la partenza riferendo un dato inquietante che getta un’oscura ombra su quello che potrebbe apparire solo un viaggio di studio. Su tale dato si sono appuntate elaborazioni successive, specie novecentesche, che interpretarono la cagione della partenza come un presunto smacco a seguito di una questione di precedenza tra carrozze in un corteo secondo l’ordine di maggiori o minori titoli nobiliari, da cui l’insostenibile umiliazione e sdegno generati in Salviati dall’aver presumibilmente dovuto cedere alle ragioni dei contendenti, conseguendone mortificante onta e disonore. Quindi non per altre motivazioni che per vergogna, egli sarebbe partito all’improvviso.
Indubitabile invece, nel testo della fonte, la stretta connessione causale tra la inimicizia non ordinaria e la partenza. Si rileva in tale nesso un forte nodo segreto la cui natura non è di facile scioglimento.
Di fatto, la straordinaria inimicizia derivò da un’iniziale differenza tra Salviati e i fratelli Bernardetto e Ottaviano Medici, del ramo di Ottaiano nel regno di Napoli, nipoti essi stessi di papa Leone XI, legati da stretta parentela e amicizia con Filippo. L’origine va ricercata nel sorpasso della carrozza di don Bernardetto, effettuato in via Romana il 26 aprile 1609 da parte di una carrozza anonima, rivelatasi poi di Salviati, occupata da cavalieri suoi amici, lui assente.
Non di questione di precedenza dunque si trattò ma di un sorpasso, probabilmente mal effettuato, che suscitò le ire del Medici, il quale fece rincorrere la carrozza da un suo staffiere che sulla pubblica via insultò gli occupanti con ingiuriose minacce di bastonate, l’arma dei servi. L’offesa si aggravò il giorno successivo quando i medesimi gentiluomini, sempre in assenza di Salviati, minacciarono con bastoni uno staffiere di Ottaviano scambiandolo per l’altro. L’abate don Ottaviano ne rimase irrimediabilmente offeso, diventando protagonista principale della controversia e nutrendo, da questo avvio, un odio mortale, nonostante Salviati tramite terzi gli avesse fatto pervenire delle scuse. Tale il nucleo nero da cui deriverà ogni altro sempre più drammatico sviluppo.
Nonostante i gentiluomini più esperti in materia studiassero a lungo nel corso del 1610 e 1611 una composizione tra le due parti, non si giunse a conclusione alcuna, finché il granduca alla fine di novembre 1611 richiese loro di dare parola di tregua onde concludere la pace. Ma avendo Ottaviano lasciato trapelare, a tale richiesta, animo minaccioso contro Salviati, si ritenne di doverlo segretamente avvertire. Ciononostante questi, invero non interessato a un prudente agire, il primo dicembre 1611, nel recarsi a predisporre le condizioni della pace, e passando proprio sotto le finestre dell’abate, fu assalito da gran numero di uomini capeggiati da Ottaviano, che affrontò arditamente, ferendo e rimanendo ferito egli stesso.
Il 2 gennaio 1612 il granduca concluse la pace imponendo ai contendenti perpetuo silenzio sull’intera questione. Cosa che non evitò processo e condanne agli assalitori, abate compreso, pur in libertà poco dopo.
Subito Salviati partì per le Selve con Galileo. Se ebbe inizio un anno estremamente proficuo per i due sodali, che vi si trattennero per lunghi periodi, fu anche un tempo di segrete trame, sia contro Galileo e la sua cerchia da parte degli avversari laici aggregatisi con quelli religiosi, sia contro Filippo volte ad attuare il progetto di vendetta a lungo disegnato dai due Medici, i quali, gravemente insoddisfatti dei termini della pace, ordirono l’uccisione di Salviati inviando sicari dal regno di Napoli, cui avrebbe dato archibugi un frate del Convento di San Francesco di Paola in Firenze. La cosa fu scoperta nel dicembre 1612 e Filippo, nuovamente avvisato in segreto di guardarsi, tornò alle Selve con Galileo, dove già avevano trascorso periodi in autunno, facendo mettere inferriate alle finestre basse della villa.
Lì, negli anni 1612-1613, Galileo condusse intensa attività, sostenuto dall’ardore del compagno che condivideva con lui anche le notturne osservazioni celesti sulla terrazza della villa. Lo scienziato, che già vi aveva approfondito nel 1611 la riflessione sulle fasi di Venere e sulle montagne della luna, definito e scritto le sue scoperte relative alle cose in su l’acqua in risposta ad avversari retrivi e accaniti come Lodovico delle Colombe e Vincenzo di Grazia, vi studiò le macchie solari scrivendo la terza lettera, mentre Salviati attese alle sue postille e notazioni riguardanti la controversia sui corpi galleggianti, raccolte poi da Benedetto Castelli per la Risposta alle opposizioni […] (Opere, IV, pp. 449-788).
Anni ricchi di eventi importanti per Filippo Salviati, dopo il grande avvio del 1610 e il fruttuoso impegno del 1611. Del settembre 1612 è la sua iscrizione all’Accademia dei Lincei, a seguito della quale scrisse a tutti i fratelli Lincei lettere andate perdute. Nel 1613 Angelo De Filiis gli dedicò la pubblicazione delle tre Lettere galileiane sulle macchie solari e Cesare Ripa l’edizione senese di Iconologia. Ancora nel ’13 Filippo offrì al granduca di levare a sue spese un terzo delle truppe ed esserne condottiero nella guerra del Monferrato, attestando la sua parallela passione eroica. Nel settembre dello stesso anno insieme a Galileo, si recò dalle Selve a Firenze per conferire, a nome del principe Cesi, l’investitura lincea a Cosimo Ridolfi.
All’incirca in questo periodo, 1613, va collocata una denuncia al Sant’Uffizio in Roma relativa a “un” Filippo Salviati.
Per una sovrapposizione dovuta a omonimia, fatti di imbarazzante risonanza per un ecclesiastico, riguardanti Filippo di Averardo nel primo soggiorno romano, vennero attribuiti al suo omonimo cugino, figlio di Antonio, dal papa Paolo V Borghese il quale, ignorando si trattasse di due individui diversi, l’uno proposto, aspirante al vescovato, l’altro galileista, rifiutò ripetutamente, fin dal 1611, di concedere la nomina al prelato a causa di quello che si rivelerà in massima parte un equivoco, Tale infatti, in frequenti riunioni del granduca con i Salviati, che disperati non si fanno una ragione del malanimo del papa, si comprende essere l’errore in cui questi è caduto. L’urgenza di chiarirgli il malinteso sdoppiando i due soggetti confluiti in uno solo, pur ribadita molte volte dal granduca con pressanti incarichi, non troverà mai occasione ritenuta opportuna dagli incaricati, Guicciardini, i cardinali Bandini e Borghese, don Giovanni Medici. Il papa resta con il suo equivoco. Ma è proprio grazie a esso che si verranno a conoscere gradualmente, con le motivazioni del rifiuto reiterato in corrispondenza dei reiterati uffici dell’ambasciatore, inquietanti aspetti che concernono l’informazione che di grado in grado il papa ha di ‘Filippo Salviati’. Da ultimo, a far tacere definitivamente le insistenti perorazioni, la più grave motivazione subentrata da qualche tempo: una denuncia al Sant’Uffizio. Se tale motivazione verrà rivelata poco dopo la morte di Salviati, il fatto di cui riferisce avvenne tempo addietro, come dichiara il cardinal Borghese.
Dopo qualche anno tuttavia, nel 1619, Filippo Salviati di Antonio divenne vescovo di San Sepolcro. Nello stesso 1613, il 23 ottobre, Filippo Salviati di Averardo partì improvvisamente, senza annunciarlo ad alcuno cui era tenuto, come il granduca o Federico Cesi, per un viaggio da cui non farà ritorno. E le cui ragioni oscure rimarranno celate dietro la dicitura “viaggio di studio”, ma più esattamente dietro la ermetica «cagione et origine della partenza» riferita alla «inimicizia non ordinaria».
Considerati i due precedenti avvisi segreti affinché si guardasse dal pericolo, è ragionevole supporre che anche questa volta, se la denuncia riguardò lui, Filippo possa essere stato avvertito in tutta segretezza e che la sua partenza fosse volta a sviare l’attenzione malevola non tanto da sé quanto da Galileo. In tal caso, si deve supporre che i suoi nemici personali abbiano individuato nella temperie determinata dagli oppositori della nuova scienza la via più sicura per attuare la loro vendetta privata con esito certo rispetto ai falliti tentativi antecedenti, sì che la sua notorietà di filosofo libero e la non mimetizzata effettualità di homo novus finiscano per costituire, per quelli, il punto forte d’attacco per la definitiva direzione da seguire.
Inoltre, avvalorando l’ipotesi della denuncia al Sant’Uffizio quale causa recondita della sua partenza improvvisa, ne seguirebbe una sorta di anticipo sulla prima data di riscontro formale nei riguardi di Galilei nel 1616: un avvio in atto dello sguarnimento del fronte galileiano privato del suo più autorevole sostenitore, sodale e influente protettore.
Nelle varie città toccate Salviati incontrò molti uomini di libero intelletto e cultura ai quali trasmise le scoperte galileiane, fece conoscere i suoi scritti, effettuò dimostrazioni matematiche e scientifiche. Da Genova s’imbarcò per la Spagna. Morirà in Barcellona il 22 marzo 1614 a seguito di un attacco mortale di asma.
Qualche perplessità suscita la sua morte, seguita a «gravissima infermità», per la problematica relazione tra un’asma mortale e la chiara favella di chi è noto che, nel giorno di morte e nel precedente, non solo dettasse una scrittura a beneficio della moglie e un lungo codicillo al testamento del 1611, ove stabiliva tra l’altro che il suo corpo venisse sepolto nel convento di San Francesco in Barcellona, e scrivesse altro «di propria mano», ma che poco prima di morire «intrepido e baldanzoso discorresse dell’altra vita» (Arrighetti, 1614, pp. 43-47). Non minore inquietudine desta il fatto che quattro giorni prima della morte, il 19 marzo, aveva scritto all’ambasciatore fiorentino in Madrid che sarebbe partito per quella volta alloggiando presso di lui.
Il suo corpo rientrò in Firenze il 16 maggio 1614 portato, senza sfoggio di pompa secondo le sue ultime volontà, nella tomba della Cappella Salviati in San Marco.
Arrighetti declamò le sue Lodi nell’Accademia della Crusca, riunitasi per l’occasione nella sua casa di via del Palagio. Federico Cesi, fatte celebrare solenni esequie in Roma, incaricò Iustus Riquius di stenderne l’orazione funebre (successivamente la biografia, che non verrà scritta), che egli svolse in un carme poetico e un cenotafio in prosa, poi raccolti in Parcae (M. Guardo, in Caracciolo, 2016).
Negli stessi anni 1614-1615 una ricorrente mortalità tra i lincei, caduta poco dopo la loro rispettiva iscrizione, potrebbe essere definita una inquietante ‘epidemia lincea’.
Nel farne l’interlocutore cui maggiormente affida le argomentazioni più rappresentative del suo pensiero nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Galileo crea un personaggio che non si limita a essere la sua voce copernicana, ma è l’altro Salviati, nel quale si fonde la portata filosofica e scientifica dell’autore con i caratteri dell’amico scomparso, tale da consentire di rintracciarne i tratti nell’atteggiamento e approccio al dibattito, nella signorile ironia, nel pacato sarcasmo sorretto dalla fermezza della dimostrazione. Alla sua presenza umana e culturale, nel dichiarato intento di eternarne la memoria, egli rende commosso riconoscimento: «sublime intelletto, che di niuna delizia più avidamente si nutriva, che di specolazioni esquisite» (Galilei, Al discreto lettore, Dialogo cit., p. 10).

Appendice: concomitanza di date/eventi

1611

  • 17 maggio: la Congregazione del Sant’Uffizio decreta di verificare se nel processo a Cremonini sia nominato Galilei;
  • 28 maggio: il papa afferma di conoscere bene il proposto Salviati per il difetto di strabismo in un occhio lasciando cadere il discorso dell’ambasciatore Guicciardini su un eventuale vescovato per lui;
  • estate: disputa sulle galleggianti in casa di Filippo Salviati;
  • estate: Galilei stende il Discorso intorno alle cose che stanno su l’acqua;
  • fine settembre/primi ottobre: pranzo a corte, dibattito tra Galilei, Maffeo Barberini e altri cui si oppone Ferdinando Gonzaga;
  • 1 dicembre: assalto a Filippo Salviati e suo ferimento da parte di Ottaviano Medici accompagnato da molti uomini;
  • 16 dicembre: Cigoli avverte Galileo che avversari «malotichi et invidiosi» si riuniscono in casa dell’arcivescovo Marzimedici e «come arrabbiati vanno cercando se vi possono appuntare in cosa alcuna sopra il moto della terra od altro».

1612

  • anno 1612: Galilei trascorre lunghi periodi dell’anno alle Selve con Salviati, vi termina il Discorso intorno alle cose che stanno su l’acqua, che pubblica, vi studia le macchie solari. Si rafforza e organizza l’alleanza tra avversari laici e religiosi contro Galilei e la sua cerchia;
  • 2 gennaio: il granduca conclude la pace tra Salviati e i due fratelli Medici (che in segreto ne resteranno non soddisfatti). Salviati si reca con Galilei alle Selve;
  • 12 maggio: Galilei alle Selve ha terminato la prima Lettera sulle macchie solari;
  • giugno-luglio: frequenti attestati di stima da varie parti d’Italia dimostrano l’estensione raggiunta dalla fama di Salviati. In Roma il suo ‘finto dubbio’ ha fatto ridere molti uomini d’intelletto (vedi sopra, paragrafo 1.);
  • giugno-agosto: studio quotidiano della macchie solari (Galilei a volte con Salviati);
  • 29 settembre: iscrizione lincea di Salviati;
  • 2 novembre: Lorini predica contro il copernicanesimo (Libro di Giosuè);
  • 3 novembre : il granduca raccomanda il proposto Salviati per il vescovato di Colle;
  • 4 novembre: Galileo alle Selve sta scrivendo la terza lettera sulle Macchie solari;
  • 5 novembre: Lorini scrive a Galileo alle Selve per giustificare di aver parlato il 2 novembre «per non parere un ceppo morto» con il lapsus nominale di Ipernico per Copernico. Esprime fiducia, non senza ambigua allusività, sulla ortodossia della «nostra nobiltà»;
  • 10 novembre: Guicciardini, tornato a sollecitare il vescovato per il proposto Salviati, rivela al granduca l’avversione del papa e la pessima disposizione verso di lui, tale che non c’è niente da fare né ora né mai. A causa di cose accadute in Roma quando il proposto vi fu, il papa sapendo quel che sapeva non poteva eleggerlo vescovo. In Firenze capiscono che si tratta dell’altro Filippo che fu a Roma, ma ciò non viene chiarito al papa;
  • 17 novembre: Borghese riferisce a Guicciardini che si aggiunge qualche altra cosa tale che con il papa non ci sarà niente da fare mai;
  • 24 novembre: a quanto sopra si aggiunge che vi sono più cagioni che il papa sa in coscienza;
  • 1 dicembre: Galilei data la terza lettera sulle Macchie solari;
  • 10 dicembre: Galilei si trova ancora alle Selve; l’avversario Ludovico delle Colombe invia a Salviati alle Selve due copie del suo Discorso sul galleggiare dei corpi, una per lui, l’altra per Galilei;
  • 14 e 21 dicembre: da Roma il card. Bandini avvisa dell’attentato ordito contro Filippo dai due Medici;
  • 21 dicembre: Ottaviano va a Roma in incognito.

1613

  • febbraio: Ottaviano torna a Roma incontrando il papa e il cardinal Borghese, poi proseguirà per Napoli a causa di un omicidio commesso da Bernardetto;
  • 1 febbraio: Cigoli esprime sarcasmo nei confronti di Colombe e della sua «lega», quegli avversari di Galileo e della sua più ristretta cerchia che cercano in tutti i modi di fermarli;
  • 2 febbraio: Castelli richiede a Galilei alle Selve le postille e notazioni scritte da Salviati sui trattati di Colombe e Di Grazia contro il galileiano Discorso delle cose che stanno sull’acqua, per mettere «ogni cosa insieme»;
  • luglio/agosto: Caccini a S. Maria Novella irrompe in camera di Ximenes che dialoga con Attavanti sul moto del sole e afferma che è proposizione eretica (attestato da Attavanti interrogato al Sant’Uffizio in Firenze, 1614). Cosimo Ridolfi vi è spesso presente;
  • marzo: il Linceo Angelo De Filiis dedica a Salviati l’edizione Delle Macchie solari;
  • 3 settembre: il granduca incarica don Giovanni Medici (ambasciatore straordinario in missione segreta a Roma per la guerra del Monferrato) di scagionare presso il papa il proposto Salviati della «erronea o maligna» relazione fattagli da qualcuno su di lui;
  • 7 settembre: Istruzione scritta del granduca a don Giovanni perché chiarisca al papa l’equivoco sui due Filippo Salviati, con molti particolari che motivano la sovrapposizione dei due personaggi dovuta a omonimia;
  • 14 settembre: don Giovanni è già ripartito da Roma senza chiarire al papa l’equivoco. Lascia incarico a Guicciardini che si accordi con card. Bandini perché ne trattino loro. Non lo faranno: non è opportuno;
  • settembre: Galileo e Filippo effettuano l’investitura lincea di Cosimo Ridolfi a nome di Cesi e di tutti i Lincei;
  • 21 ottobre: Ottaviano gioca a pallacorda con il granduca a Siena;
  • 23 ottobre: Filippo Salviati parte improvvisamente;
  • 6 novembre: Castelli riferisce a Galilei l’ammonizione ricevuta da mons. Arturo Pannocchieschi di non dibattere sul moto della Terra, cui Castelli rispose che anche Galilei glielo aveva consigliato né questi stesso ne aveva mai trattato;
  • 21 dicembre: Lettera copernicana di Galilei a Benedetto Castelli;
  • 27 dicembre: Guicciardini riferisce che né a Bandini né a lui è parso opportuno parlare al papa per discolpare il proposto dalla «opinione sinistra» che quegli ha di lui, meglio non ricordargliela «forse il tempo la fa dormire».

1614

  • 22 marzo: Filippo Salviati muore in Barcellona;
  • 14 novembre: Guicciardini riferisce che non molto tempo addietro è comparsa al Sant’Uffizio in Roma una denuncia contro Filippo Salviati;
  • 21 dicembre IV domenica di Avvento: Caccini predica in S. Maria Novella, sul libro di Giosuè, contro la matematica arte diabolica, portatrice di eresie, contro i seguaci di Galileo, apostrofandoli: «Viri Galilaei, quid statis adspicientes in coelum?».

1615

  • 7 febbraio: Lorini invia al card. Sfondrati copia della Lettera di Galilei a Castelli, aggravata nell’espressione di alcuni concetti, anche se la presenta come «vera copia», avvertendo che lo scienziato l’ha scritta in opposizione alle lezioni tenute da Caccini in S. Maria Novella sul cap. X del Libro di Giosuè, «Sol ne movearis», menziona i suoi seguaci e afferma che si interpreta la Scrittura in senso diverso dalla dottrina;
  • 25 febbraio: decreto del Sant’Uffizio in Roma affinché l’Inquisitore di Pisa si procuri e invii l’originale della Lettera di Galilei a Castelli che contiene proposizioni erronee circa il senso e l’interpretazione delle Scritture;
  • 20 marzo: Caccini a Roma denuncia al Sant’Uffizio Galilei con riferimenti ai seguaci, al libro sulle Macchie solari, ai Lincei, all’intimità con Sarpi, alla corrispondenza con altri di Germania. Il Sant’Uffizio ordina di interrogare in Firenze Ximenes e Attavanti, discepolo di Galilei;
  • 1615: Lettera copernicana di Galilei a Cristina di Lorena;
  • 13 novembre: interrogato al Sant’Uffizio in Firenze il padre predicatore Ferdinando Ximens;
  • 14 novembre: interrogato Giannozzo Attavanti, il quale nottetempo si reca nascostamente ad avvisare Galilei;
  • 25 novembre: Sant’Uffizio in Roma ordina che si veda il libro Delle Macchie solari;
  • 28 novembre: il granduca annuncia a Guicciardini il prossimo arrivo di Galilei che intende giustificarsi a fronte delle calunnie degli avversari e «render buon conto di sé»;
  • 10 dicembre: Galilei a Roma.

1616

  • 26 febbraio: Ammonizione del card. Bellarmino a Galilei con formale divieto di tenere e insegnare il moto della Terra.

Bibliografia

N. B. Le fonti manoscritte sono pubblicate in alcuni dei testi moderni sottoelencati.

  • [Cesare Ripa], Iconologia Dedicata all’Illustrissimo Signor Filippo Salviati, Appresso gli Heredi di Matteo Florimi, Siena 1613;
  • Niccolò Arrighetti, Delle lodi del Sig. Filippo Salviati, nella Stamperia di Cosimo Giunti, Firenze 1614;
  • Iustus Riquius, Generosissimi viri Philippi Salviati, e Cenotaphium eiusdem, in Parcae, id est epithaphiorum […], ex Typographeio Ioannis Kerchovis, Gandavi 1624, pp. 43-46;
  • Le Opere di Galileo Galilei, a cura di Antonio Favaro, Barbèra, Firenze 1888-1909, in partic. IV, V, VII, VIII, XI, XII, XIX, XX:
  • Galileo Galilei, Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, Ivi, IV, pp. 57-140;
  • Benedetto Castelli, Risposta alle opposizioni del S.r Lodovico Delle Colombe e del S.r Vincenzo di Grazia contro al Trattato del S.r Galileo Galilei, Delle cose che stanno su l’acqua o che in quella si muovono, In Firenze, Appresso Cosimo Giunti, 1615, Ivi, IV, pp. 449-788;
  • Angelo De Filiis, All’Illustrissimo Signore, il Sig. Filippo Salviati Linceo, in Galileo Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, comprese in tre lettere scritte a Marco Velseri, Ivi, V, pp. 75-78 e 71-250;
  • Id, Lettera a D. Benedetto Castelli, (21 dicembre 1613), Ivi, V, pp. 279-288;
  • Id, Lettera a Madama Cristina di Lorena, (1615), Ivi, V, pp. 307-348;
  • Id, Al discreto lettore, in Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Ivi, VII, pp. 29-32 e 1-520;
  • Id,, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Ivi, VIII, pp. 39-312;
  • Vincenzo Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo, Ivi, XIX, pp. 597-632;
  • Niccolò Gherardini, Vita di Galileo, Ivi, XIX, pp. 633-646;
  • G. Battista Nelli, Vita e commercio letterario di Galileo Galilei, I-II, Losanna 1793;
  • Baldassarre Odescalchi, Memorie istorico critiche della Accademia dei Lincei, Nella Stamperia di Luigi Perego Salvioni, Roma 1806;
  • Antonio Favaro, Galileo Galilei e lo studio di Padova, II, Antenore, Padova 1966;
  • Id., Amici e corrispondenti di Galileo, I, Libreria Editrice Salimbeni, Firenze 1983;
  • Giuseppe Gabrieli, Degl’interlocutori nei dialoghi galileiani e in particolare di Filippo Salviati linceo, in Id, Contributi alla storia della Accademia dei Lincei, I, Roma 1989;
  • Id, Il carteggio linceo, Roma 1996;
  • Giorgio Abetti, Amici e nemici di Galileo, Bompiani, Milano 1945;
  • Severina Parodi (editi da), Atti del primo Vocabolario, Sansoni, Firenze, 1974;
  • Ead (a cura di), Catalogo degli Accademici, presso l’Accademia, Firenze 1983;
  • Ead, Quattro secoli di Crusca, presso l’Accademia, Firenze 1983;
  • Roberto Paolo Ciardi-Lucia Tongiorgi Tomasi, Le Pale della Crusca, presso l’Accademia, Firenze 1983;
  • Pierre Hurtubise, Une famille-témoin. Les Salviati, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1985;
  • Allì Caracciolo, I filosofi dispersi. Storia segreta di Filippo Salviati galileista negli anni della Controriforma, La Città del Sole, Napoli 2001;
  • Ead., Minimi e massimi moti. Documenti inediti per una biografia di Filippo Salviati, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Macerata, XXXIV (2001), pp. 341-416;
  • Paolo Galluzzi, «Libertà di filosofare in naturalibus». I mondi paralleli di Cesi e Galileo, Scienze e Lettere, Roma 2014;
  • Allì Caracciolo (a cura di), Filippo Salviati filosofo libero, Eum, Macerata 2016 (per varietà di ambiti toccati, se ne riporta l’Indice: F. Mignini, «Mirabile e veramente angelica dottrina». Libertas philosophandi in ambiente galileiano, pp. 21-50; V. Lavenia, L’Inquisizione a Firenze prima e dopo Salviati, pp. 51-76; A. Caracciolo, Filippo Salviati filosofo libero, un homo novus accanto a Galileo, e La libreria. Ipotesi di ricostruzione, pp. 77-193; E. Benucci, Il primo «Vocabolario» della Crusca e Filippo Salviati. Lungimiranza culturale di un progetto, pp. 195-224; M. Guardo, L’Accademia dei Lincei e Filippo Salviati: dal carteggio agli elogi, pp. 225-245; F. Carrara, Gli spazi domestici di Filippo Salviati: il palazzo di Firenze, la villa delle Selve, pp. 247-276; F. Minazzi, Il Salviati galileista del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, pp. 277-302; G. Benzoni, L’amico veneziano di Galilei: Giovan Francesco Sagredo, pp. 303-340; L. Guerrini, Features and Trends of the Polemic Against Copernicus in Tuscany Before Galileo, pp. 341-364; M. Taglioli, Il fondo Salviati: un archivio familiare presso la Scuola Normale Superiore, pp. 365-374).

Voci correlate

Article written by Allì Caracciolo | Ereticopedia.org © 2017

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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