Orsini, Bellezza

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo
Edizioni CLORI | Firenze | ISBN 978-8894241600 | DOI 10.5281/zenodo.1309444


Bellezza Orsini è stata una donna processata per stregoneria presso la rocca di Fiano nel 1528.

Nacque a Collevecchio, in Sabina, probabilmente tra il 1475 e il 1480 da Pietro Angelo Orsini, del ramo di Mugnano-Foglia, del quale dovette essere figlia naturale. Come per tutta la sua vicenda, la sola fonte delle notizie su di lei è il processo per stregoneria che la vide inquisita a Fiano dal tribunale del conte di Pitigliano, Ludovico Orsini. Si tratta di un fascicolo processuale, strutturato con la trascrizione degli interrogatori in volgare e in forma diretta, privo di date ma i cui elementi intrinseci consentono di collocarlo tra il maggio e il giugno del 1528. Il fascicolo contiene un quaderno autografo con una memoria dell’inquisita ed è conservato in un volume del Tribunale del governatore di Roma del 1540, anno intorno al quale giunse presso quella magistratura.
Negli anni novanta del XV secolo Bellezza fu al servizio degli stessi Orsini, ma del ramo di Monterotondo, dove afferma di aver iniziato la sua attività di “strea” situandola all’epoca dell’arrivo delle truppe di Carlo VIII: «Sono delli anni più de trenta e questo che io dico è la verità e possene fare paragone el primo mio principio del mal fare in questo modo: incominciai nanti che li franciosi venissero in questo paese. Io rimasci vidua, era una jovene, quasi pucta, e cusì fui presa da questi signori e stava a Monte rotondo» (c. 463rv). Il legame con quel ramo della famiglia è inoltre confermato dalle sue relazioni, attestate nel processo, con il cardinale Giovanni Battista Orsini, zio di Franciotto Orsini, all’epoca signore di Monterotondo e marito di Violante Orsini, il padre della quale era a sua volta figlio legittimo del Pietro Angelo genitore di Bellezza.
Servitrice nella rocca di Monterotondo almeno fino alla fine del Quattrocento, visse poi in vari luoghi della Sabina stabilendosi a Filacciano, dove si trovava nel periodo immediatamente precedente il processo e da dove alcuni anni prima era stata bandita insieme ad altre donne ritenute streghe. Si trattò in realtà di un esilio poco rispettato, perché Bellezza si muoveva con una certa libertà insieme ai suoi figli, almeno tre, ed era sostenuta dalla Comunità, che la riconosceva come guaritrice. Fu appena dopo il Sacco di Roma del 1527 che invece quella sua attività la portò alla querela dovuta alla morte di un ragazzo recatosi con lei a Roma per le Perdonanze pasquali dopo l’uscita delle truppe dei lanzichenecchi dalla città, avvenuta nel febbraio del 1528, quando con un gruppo di pellegrini Bellezza si mosse da Filacciano probabilmente per poter pienamente reintegrarsi, dopo le Perdonanze, nella Comunità da cui era stata esiliata.
Arrestata e condotta nella rocca di Fiano nel maggio del 1528, tentò di evadere e di resistere alle accuse in un processo condotto dal giudice Marco Calisto da Todi e dal notaio Lucantonio da Spoleto. Fu chiaro sin dall’inizio che il reato di omicidio si configurava in realtà come fattucchieria, ben presto tradotta in stregoneria dopo l’inquisitio generalis costruita sull’escussione di varie testimonianze che corroborarono la querela e l’accusa per diffamationem a Bellezza di essere una maestra di streghe.
Nei suoi primi drammatici interrogatori l’inquisita giustificò la sua azione come guaritrice capace di usare erbe e di interpretare il suo “libro di 180 carte” contenente quelli che definì i “secreti del mondo”, ma la natura suggestiva delle domande del giudice associata all’abile uso della territio prima e della tortura poi la condussero a confessare la sua partecipazione al rito del sabba e del volo notturno verso il noce di Benevento, dove avvenivano gli incontri carnali col diavolo secondo una descrizione basata su quanto, esattamente cento anni prima nella città di provenienza del giudice, era stato confessato da “Matteuccia da Todi”.
Il sabba descritto da Bellezza è tuttavia una variante rispetto a quel modello ed è alimentato da processi successivi a quello di Todi come la “caccia” della Val di Fiemme del 1505, in cui si parlò della “donna del buon gioco” coperta da un cappello “a tagliere”, ovvero allungato ai lati degli occhi. Il volo è per Bellezza condotto da un diavolo «in forma de homo, e più bello, e ben vestito tucto de negro, e porta la berretta rotonda ad tagliero, senza pieca», giunto dopo la composizione dell’unguento proveniente da cadaveri di bambini non battezzati e su «un cavallo bello, senza orechie e senza coda, peloso de pili longhi tucto e quando un becco grande peloso. E cusì lui se pone de nanzi e nui dreto, ad cavallo, e portace via, che vola in un tracto quanto voli alongho: se comandi cento miglia in meza hora, le fa; quanto ne chiami, cusì fa» (cc. 467v-468r).
Il sabba di Bellezza e la confessione che lo contiene sono inoltre condizionati dalle sue conoscenze e dalla capacità di descrivere la gerarchia delle streghe, con una dettagliata e rara rappresentazione dell’organizzazione territoriale – governata dalla maestra chiamata “Befania” – e di una segreta formazione costruita su conoscenze esoteriche provenienti da un lungo e faticoso percorso educativo.
Secondo le attestazioni lasciate nei suoi costituti quel percorso risulta connesso al suo uso del libro, nel quaderno autografo definito “livrone” e descritto talvolta come un testo da lei letto e talvolta come da lei scritto. È probabile si tratti di un esemplare dell’Herbolario volgare stampato a Venezia in più edizioni a partire dal 1520 ma integrato da notizie e informazioni manoscritte tràdite da conoscenze orali e da lei stessa innestate sul possibile esemplare a stampa. La sua capacità di leggere e scrivere è infatti data per presupposta nel processo, e del resto l’insistenza da lei reiterata sulla centralità della conoscenza, del saper curare e della diffusione di tale sapere attraverso la stampa confermano grande confidenza con la lettura e la scrittura. Nonostante ciò è discutibile l’autografia sua del quaderno, semplicemente perché scritto subito dopo una ripetuta e severa tortura che dovette renderle difficile l’uso della penna, probabilmente condotta sotto dettatura da uno dei suoi figli, suo procuratore nel processo. Si tratta in ogni caso di una scrittura “semicolta” ben controllata, strutturata su diciassette implicite domande, al centro delle quali sta la risposta di Bellezza alla perentoria richiesta da parte del giudice di esprimere, nonostante la già avvenuta confessione, la verità “ad unguem”, ovvero fino in fondo, sulla stregoneria e la sua natura.
La risposta di Bellezza a tale domanda fuoriesce dalla necessità di costruire l’immagine della strega che veniva pretesa dalla tortura, e si orienta invece sulla trasmissione della conoscenza: una scelta eccentrica rispetto alle necessità giudiziarie e alla possibilità di salvarsi da una condanna che, dopo il rifiuto da parte del conte di Pitigliano di intervenire in suo favore, era ormai inevitabile. La “strearia” è infatti per lei la sola capacità di applicare in libertà alcune regole apprese in modo esoterico, comportamento delicato perché al limite tra il bene e il male, ovvero un’arte da gestire in modo individuale con invenzione e basata sull’ardore della conoscenza, anzi per lei identificabile con quello stesso ardore: «Como che chi impara la lettera se dà el principio delo leiere e delo scrivere, e po’ se sequita secunno la ‘ncrinazione de onnechivelli [di ciascuno], chi a uno modo chi a un altro, chi de piune e chi de mino, ma non se ne vede mai l’anbene [l’amen], per dicere, la concrusione, lu fonno: quante più cose cierchi de inparare tante più sonno quelle che trovi da ‘nparare, che prima nemanco ne tenevi sentimento, e più vai inanti più vo’ ire e non te ne cuntenti. Cusì è la strearia» (quaderno, c. 2v).
La natura di queste affermazioni, che sembrano sfidare l’ammonizione di lontana matrice paolina del Noli altum sapere, sed time, proveniva verosimilmente da una maturazione in ambienti colti, sicuramente intorno agli Orsini, con i quali lei stessa afferma di avere viaggiato molto fino al nord, presso Venezia. Il rovesciamento dalla sua confessione sui malefici compiuti, tutta interna alla procedura inquisitoria e alla tradizione del Malleus Maleficarum pubblicato quaranta anni prima, verso un’idea di stregoneria intesa come il dubbio alla base della conoscenza, visione invece esterna alle esigenze processuali e verosimilmente proveniente da esperienze reali, appare come un sostanziale nucleo di verità nella confessione di Bellezza. Dopo la consegna del quaderno Bellezza Orsini si suicidò colpendosi alla gola con un chiodo, come riferisce il notaio: «Bellezze constituta, noctis tempore, cum uno chiodo vel clavo se percussit in gula duabus percussionibus cum maxima sanguinis effusione etc., et remansit quasi semi mortua etc. Item supradicta interrogata dixit tentata a diabolico spiritu se voluit occidere et non putavit plus ultra nisi carere et evadere de hoc mundo» (c. 474v).

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Article written by Michele Di Sivo | Ereticopedia.org © 2017

et tamen e summo, quasi fulmen, deicit ictos
invidia inter dum contemptim in Tartara taetra
invidia quoniam ceu fulmine summa vaporant
plerumque et quae sunt aliis magis edita cumque

[Lucretius, "De rerum natura", lib. V]

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